Divenire autonomi emotivamente

Fra i concetti cardine della terapia sistemica vi è quello della differenziazione.

Fin dalla nascita il bambino è separato fisicamente dalla madre, ma il processo che gli permette di raggiungere la propria autonomia emotiva è molto lungo.
Ci sono persone che pensano di differenziarsi dalla propria famiglia di origine allontanandosi fisicamente da questa, ma ciò non basta.

C’è un filo emotivo invisibile che ci tiene legati alla nostra famiglia, un insieme di valori, di regole d’oro, di miti e rituali che ritornano inevitabilmente anche quando si genera una famiglia propria.

È importante sapere che il processo di separazione emotiva è lento e dipende da molti fattori:

  • dal legame dei propri genitori,
  • dal grado in cui questi sono riusciti a differenziarsi a loro volta dalle famiglie di origine,
  • dal livello di attaccamento emotivo non risolto dei figli.

Quando due persone si incontrano dando vita ad una nuova prole, portano con sè anche l’idea di famiglia ricevuta dal proprio vissuto di figli. A volte si cerca di protrarre questa idea, altre volte di respingerla.

Ma la coppia che si incontra ha credenze e fantasie diverse anche rispetto al nuovo nucleo familiare.

Per questo è importante essere consapevoli del bagaglio emotivo che possediamo come persona e come coppia. Un bagaglio emotivo che contiene l’impronta della propria storia familiare.

Autostima: Stare bene con sé stessi

L’autostima è l’insieme dei giudizi valutativi che l’individuo dà di sé stesso (Battistelli, 1994).
Tre elementi fondamentali ricorrono costantemente in tutte le definizioni di autostima (Vascelli,2008):

  1. La presenza nell’individuo di un sistema che consente di auto – osservarsi e quindi auto – conoscersi.
  2. L’aspetto valutativo che permette un giudizio generale di sé stessi.
  3. L’aspetto affettivo che permette di valutare e considerare in modo positivo o negativo gli elementi descrittivi.

Una prima definizione del concetto di autostima si deve a William James, il quale la concepisce come il risultato scaturente dal confronto tra i successi che l’individuo ottiene realmente e le aspettative in merito ad essi.
Alcuni anni dopo Cooley e Mead definiscono l’autostima come un prodotto che scaturisce dalle interazioni con gli altri, che si crea durante il corso della vita come una vera valutazione riflessa di ciò che le altre persone pensano di noi.
Infatti l’autostima di una persona non scaturisce esclusivamente da fattori interiori individuali, ma hanno una certa influenza anche i cosiddetti confronti che l’individuo fa, con l’ambiente in cui vive.
A costituire il processo di formazione dell’autostima vi sono due componenti: il sé reale e il sé ideale.
Il sé reale non è altro che una visione oggettiva delle proprie abilità; detto in termini più semplici corrisponde a ciò che noi realmente siamo.
Il sé ideale corrisponde a come l’individuo vorrebbe essere. L’autostima scaturisce per cui dai risultati delle nostre esperienze confrontati con le aspettative ideali.
Maggiore sarà la discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, minore sarà la stima di noi stessi.
La presenza di un sé ideale può essere uno stimolo alla crescita, in quanto induce a formulare degli obiettivi da raggiungere, ma può generare insoddisfazioni ed altre emozioni negative se lo si avverte molto distante da quello reale.
Per ridurre questa discrepanza l’individuo può ridimensionare le proprie aspirazioni, e in tal modo avvicinare il sé ideale a quello percepito, oppure potrebbe cercare di migliorare il sé reale. (Berti, Bombi, 2005).

Le persone con scarsa autostima hanno una visione negativa del proprio valore, incondizionata, pervasiva e di lunga durata.
Chi ha bassa autostima sperimenta:

  • Una scarsa fiducia in sé stesso e nel mondo
  • Una difficoltà di ascoltarsi e di individuare obiettivi realistici e coerenti con le proprie aspirazioni
  • La tendenza a dipendere dagli altri per ciò che riguarda la definizione del valore come persona e delle capacità
  • Una ricerca continua del consenso degli altri, uno scarso spirito di iniziativa ed una scarsa disponibilità a rischiare
  • La tendenza a reagire d’impulso
  • La mancanza di un progetto di vita personale
  • Una vulnerabilità ai disturbi d’ansia e uno stile comportamentale passivo.

Tra i fattori di rischio meritano particolare attenzione quelli ambientali come episodi di isolamento/mobbing, eventi traumatici, stress prolungato, episodi di trascuratezza e/o abbandono dell’infanzia/adolescenza, ripetute critiche da parte delle figure di riferimento.
In generale il miglioramento dell’autostima è una premessa fondamentale per il benessere psicosociale della persona. Le persone con bassa autostima, generalmente, ricorrono alla psicoterapia lamentando sintomatologie depressive, ansiose e/o alimentari.
Il trattamento, oltre a focalizzarsi sulla riduzione e gestione di queste problematiche, si prefigge di lavorare sull’accrescimento dell’autostima.

Malati terminali e caregiver

Il morire rappresenta l’ultima fase della vita di un essere umano.

Il morire è un percorso difficile da attraversare e donare sostegno in questo momento significa aiutare a vivere.

Osservando un gran numero di malati terminali, kübler- Ross ha individuato i vari stadi del processo del morire.

La prima fase è caratterizzata da shock e sgomento, uno stato che può durare secondi o protrarsi per giorni interi.

Nella seconda fase subentra un sentimento di profondo turbamento durante il quale il morente viene sconvolto da una tempesta sentimentale che scarica su chi gli sta vicino muovendo accuse a familiari e medici e provando sentimenti di rabbia contro Dio.

Nella terza fase emerge il disperato tentativo di “contrattare” un allungamento della vita che poi sfuma con l’avvento della quarta fase permeata da un sentimento di rassegnazione e depressione. Solo più tardi comincia la quinta fase, quella dell’accettazione definitiva di un processo irreversibile e del distacco da ogni legame.

I passaggi tipici del dolore non vengono vissuti nella stessa maniera da tutti i malati e anche la loro sequenza può variare. Ciò nonostante il fatto di conoscerli può essere d’aiuto nel gestire l’interazione di sentimenti diversi e a capire meglio i comportamenti di pazienti terminali.

L’impatto del tumore in stadio terminale sembra non essere forte solo sul paziente, ma anche sui familiari o gli amici che se ne occupano.

Tanto che questi sono a rischio di sviluppare patologie sia psicologiche che fisiche.

Chiunque abbia fatto l’esperienza di accudire un paziente malato oncologico terminale e in terapia del dolore, sa bene che tra le cose più penose c’è quella che il pensiero della malattia diventa un chiodo fisso, difficile da scaricare anche nei momenti più felici.

Secondo uno studio dell’ Università di Bologna e della Fondazione ANT Italia Onlus, la più ampia esperienza al mondo di assistenza socio-sanitari domiciliare gratuita ai sofferenti di tumore, quello stesso ‘rimuginio’ funzionerebbe da potenziale attivatore di patologie proprio nei caregiver, i familiari che si prendono cura dei sofferenti oncologici assistiti a domicilio.

L’impatto del tumore, come prevedibile, incide non solo sulla vita del malato: chi si prende cura di lui viene messo a dura prova dal punto di vista psicologico.

L’assistenza ai pazienti oncologici comporta infatti nei familiari lo sviluppo di elevati livelli di stress che concorrono all’insorgenza di sintomatologia psicofisica nel familiare che accudisce il malato.

Il livello di pensieri negativi risulta, secondo la ricerca, essere molto elevato nei caregiver.
Ma soprattutto l’indagine ha evidenziato risultati significativi in merito alla relazione tra il disagio psicologico e i sintomi somatici dei familiari.

Il grado di rimuginio risulta infatti un predittore potente e solido di sintomatologia fisica, ma anche di depressione.
Per questo interventi di sostegno psicologico talvolta risultano necessari anche per i caregiver.

COVID, l’impatto sulla psiche

Isolamento prolungato, reclusione e incertezza sul futuro possono minare la stabilità mentale, soprattutto quella delle persone con pregressi disturbi delle psiche, come persone affette da disturbi d’ansia o da depressione.
Un lavoro pubblicato sulla rivista Social Psychiatry and Psychiatric Epidemiology e coordinato da Debby Herbenick della Indiana University School of Public Health – Bloomington, mostra che i livelli di depressione e solitudine durante la prima ondata di Covid-19 sono risultati aumentati.
Solo coloro che hanno mantenuto elevati livelli di contatto non virtuale ma fisico e altri livelli di connessione sociale presentavano un miglior stato di salute mentale.
Questo periodo di pandemia e isolamento sociale ha provocato una serie di conseguenze psicologiche sulla vita delle persone, colpendone l’equilibrio mentale.

Per comprendere meglio le conseguenze del Coronavirus sulla nostra psiche, mi riferisco ad un articolo pubblicato dalla rivista scientifica The Lancet, in cui, grazie al confronto con uno studio condotto durante la pandemia da SARS nel 2003 in varie zone della Cina, vengono analizzate le conseguenze psicologiche del dover stare in quarantena forzata.
Tra le conseguenze comparivano stress, nervosismo, ansia maggiore, frustrazione, smarrimento, sintomi depressivi, peggioramento di disturbi psichici preesistenti.
Entrando più nello specifico della clinica una delle conseguenze psicologiche più evidenti del Covid -19 è per molte persone la paura ossessiva di contaminazione.
L’impossibilità di mantenere il nostro stile di vita, le nostre abitudini, la nostra libertà di movimento , ha fatto precipitare molte persone in un vissuto complesso e problematico da affrontare.
E’ importante non sottovalutare le conseguenze psicologiche che solitudine e isolamento possono creare, rivolgendosi ad un professionista per chiedere aiuto rispetto alla gestione di questo periodo di vita complicato.

Famiglia e valori


Dialogo tratto dal film “La storia infinita”

Atreyu: Che cos’è questo nulla?!
Gmork: È il vuoto che ci circonda. È la disperazione che distrugge il mondo, e io ho fatto in modo di aiutarlo.
Atreyu: Ma perché?!
Gmork: Perché è più facile dominare chi non crede in niente.


“Siamo in piena crisi dei valori!” è un’espressione che sentiamo spesso e questo perché da diverse generazioni quello che un tempo era motivo di orgoglio familiare, è caduto nell’oblio.
La famiglia è il contesto idoneo per la trasmissione di valori fondamentali, che permettano la costruzione di una società più armoniosa.
Abbiamo il dovere di insegnare ai nostri figli, sin da piccolissimi, i valori della famiglia e quelli sociali, così come dobbiamo spiegare loro come applicarli alla vita quotidiana.
Questi valori definiranno l’atteggiamento che assumeranno nella vita da adulti e ne definiranno la personalità.

Potremmo dire che i valori condizionano il modo in cui ci comportiamo dinnanzi a circostanze che la vita ci pone davanti. Ogni condotta che assumiamo è un esempio per i nostri figli.
Per questo motivo, in veste di genitori, dobbiamo essere il loro principale e più importante modello di valori. Semplicemente, con l’esempio si educa.
Da ciò deriva l’importanza di curare al massimo il modo in cui reagiamo a ogni circostanza.
Questo aspetto è essenziale per trasmettere principi e valori ai nostri figli, che diano loro la possibilità non solo di credere in un futuro migliore, ma di gettare le basi per poterlo loro stessi costruire.

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Bibliografia

Il diritto all’ozio nei bambini

Gianfranco Zavalloni, maestro e dirigente scolastico, teorico della pedagogia della lumaca scriveva: quando si “perde tempo” si “guadagna tempo”, compaiono idee, si trovano soluzioni creative, si cercano antidoti alla noia e nuove strade di ricerca.
“Mi piace giocare, prosegue Zavalloni, disegnare, raccontare e ascoltare storie, fare e vedere uno spettacolo di burattini.
Insomma mi piace il mondo dei bambini e delle bambine, anche perché credo che sia importante che in noi resti vivo una parte di bambino.
E per 16 anni ho giocato con I bambini dai 3 ai 6 anni.
Per questo più di 15 anni fa ho scritto il Manifesto diritti naturali di bimbi e bimbe.
Questo manifesto è rivolto ai grandi, anche perché i bimbi lo capiscono al volo”.
Tra I diritti naturali di bimbi e bimbe Zavalloni ricorda il “diritto all’ozio, a vivere momenti di tempo non programmati dagli adulti”.

I bambini della scuola primaria o media hanno spesso una settimana piena di impegni.
Spesso capita che I genitori riversino sui figli le proprie aspettative , non consentendo loro di trovare un momento libero per giocare in tranquillità o semplicemente oziare.
C’è il corso di basket, poi piscina, inglese, lo studio, I compiti etc.
Succede che spesso i genitori abbiano un livello di aspettative elevato nei confronti dei propri figli, come se questi dovessero riuscire e primeggiare in svariati contesti, ma questo può ripercuotersi nei bambini stessi che avvertono una pressione eccessiva, aumentando di conseguenza il livello di ansia e stress, l’irrequietezza, la stanchezza.
Non è necessario avere un tempo sempre scandito, è importante che I bambini abbiano un po’ di tempo libero per fare ciò che desiderano, sperimentare la fantasia, la creatività o anche la noia.

La noia e l’ozio sono fattori importanti nello sviluppo della creatività e personalità.
I momenti di noia, di pausa, liberi da ogni impegno, sono essenziali per uno sviluppo equilibrato e sereno, perché consentono al bambino di conoscere se stesso, di capire quali sono I suoi interessi, desideri, emozioni.
Scrive Winnicott : “E’ soltanto mentre gioca che il bambino o l’individuo adulto è in grado di essere creativo e di far uso dell’ intera personalità, ed è solo nell’ essere creativo che l’individuo scopre la parte più profonda di sè; il proprio Sè corporeo; sulla base del gioco viene costruita l’intera esistenza dell’ uomo, come esperienza di Sè”.
Tutto questi spunti presuppongono la capacità di ascoltare i nostri bambini, cercando di capire quali sono le loro reali inclinazioni e interessi, imparando anche che I tempi degli adulti non vanno necessariamente di pari passo con i loro.

I disturbi dissociativi

La caratteristica clinica fondamentale delle sindromi che il DSM elenca nella categoria dei disturbi dissociativi è la perdita della continuità dell’esperienza soggettiva.
L’esperienza cosciente di sé è interrotta da ampie lacune amnesiche, da stati alterati di coscienza o di bruschi cambiamenti di condotta, di cui a posteriori il paziente ricorda poco o nulla.

Talora è conservata una certa continuità di memoria attraverso l’alternarsi rapido di condotte, impulsi e pensieri fra loro inconciliabili. A causa di tale alternanza, il paziente ha l’impressione che il fondamentale senso di continuità e unità del sé è minacciato o perduto.

Il caso più clamoroso di discontinuità della propria esperienza soggettiva e/o nella capacità di ricordarla e narrarla è rappresentato dal disturbo di personalità multiplo.
Nel DPM la continuità dell’esperienza cosciente è interrotta dall’emergere periodico di un’altra personalità che si impegna in azioni, pensieri e reminiscenze in cui il paziente ricorderà poco o nulla quando la personalità primaria riacquista il controllo.

Meno eclatante ma altrettanto evidente è la discontinuità dell’esperienza soggettiva che si verifica nella fuga psicogena.
Nella fuga psicogena la continuità della coscienza è interrotta da un improvviso e immotivato allontanamento dal proprio ambiente abituale di vita, durante il quale il paziente assume una nuova identità dimenticando la precedente.

Nell’amnesia psicogena un periodo della propria vita, troppo lungo perché si possa trattare di un’ordinaria dimenticanza, diventa impossibile da rievocare.

Nel disturbo da depersonalizzazione la discontinuità della coscienza e della memoria è incipiente o minacciata piuttosto che attuale. Il paziente ha l’impressione di essere completamente estraneo a sé stesso e all’ambiente che lo circonda.

La teoria sull’etiopatogenesi dei disturbi dissociativi vede susseguirsi la seguente sequenza di eventi patogeni e di reazioni ad essi:

  • un’esperienza precoce di attaccamento disorganizzato con almeno uno dei genitori;
  • la costituzione precoce, nel bambino, di modelli cognitivi multipli del sé come conseguenza di tale esperienza di attaccamento;
  • la predisposizione alla dissociazione della coscienza e della memoria come conseguenza di tale molteplicità di rappresentazioni di sé;
  • l’uso più facile della dissociazione come meccanismo di difesa di fronte a traumi
  • il susseguirsi di episodi di maltrattamento o violenza negli anni di formazione della personalità;
  • il riemergere in età adulta, della tendenza ad usare la dissociazione come strategia difensiva di fronte a difficoltà nella vita di relazione.

L’affidarsi ad un terapeuta che prenda in carico il paziente e la sua storia, “abbracciando” la complessità del problema, diviene di fondamentale importanza nel trattamento di questi disturbi.

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Bibliografia

  • “La discontinuità della coscienza, etologia, diagnosi e psicoterapia dei disturbi dissociativi”, a cura di Giovanni Liotti, ed. Franco Angeli, 1993.

I disturbi del Comportamento Alimentare

I disturbi alimentari sono essenzialmente disturbi della mente e quindi prima ancora che compaiano i segni fisici della malattia, sono già presenti da tempo quelli psicologici che in modo sotterraneo invadono le idee e i pensieri dei ragazzi.
Quindi il cambiamento fisico si accompagna e, a volte, viene preceduto da un grande cambiamento di carattere: instabilità emotiva, irritabilità, sbalzi del tono dell’umore, insonnia.
Tutti sintomi collegati alla malnutrizione ma in parte da ricondurre anche alla devastazione terribile che questi disturbi determinano nella mente di queste giovani vite.
Purtroppo l’attenzione all’alimentazione e l’eliminazione di alcuni alimenti, come pasta e dolci, è presente in moltissimi adolescenti e quindi non viene inizialmente compresa nella sua gravità.
Ma quando questa attenzione diventa continua, ossessiva e si accompagna al continuo osservarsi allo specchio e al continuo salire sulla bilancia ciò deve farci riflettere se non stia succedendo qualcosa.
Tenete conto che i Disturbi Alimentari sono diversi e l’inizio può essere molto subdolo e insidioso.
L’anoressia restrittiva si manifesta con l’eliminazione di alcuni alimenti cosiddetti fobici (pane, pasta, dolci, olio) ma anche con la riduzione delle porzioni, un’intensa attività fisica, la diminuzione delle attività sociali per evitare di essere costrette a mangiare.
L’anoressia si accompagna ad una grande fame e chi ne è affetto deve contrastare l’impulso a mangiare che è fortissimo; si cerca di tenere a bada i morsi della fame bevendo caffè, molta acqua, usando molte spezie, invece dei condimenti.
Nel caso dell’anoressia nervosa esistono un ampio numero di alterazioni dell’apparato cutaneo quali pelle molto secca e squamosa, sottile peluria che ricopre tutto il corpo, caduta dei capelli, acne, prurito, porpora, stomatite.
Nel caso della Bulimia il disturbo può passare inosservato ancora più a lungo, perché le pazienti ai pasti mangiano, anzi a volte si abbuffano, ma subito dopo si procurano il vomito.
In questo caso i sintomi psicologici sono più presenti e rilevanti: abuso di sostanze e di alcool, cleptomania, disturbi della condotta sessuale, disturbi del comportamento, gioco d’azzardo, shopping multicompulsivo.
Insomma uno scarso controllo degli impulsi con un cambiamento del carattere molto più evidente che nel caso dell’anoressia.
Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata infine è caratterizzato da grandi abbuffate senza vomito o metodi di compenso, con un conseguente aumento di peso da subito molto evidente; le abbuffate sono consumate quasi sempre di nascosto: frigoriferi svuotati e carte di biscotti e cioccolato sotto il letto possono essere i primi segnali, accompagnati da un disordine generale nella vita e da un abbassamento del tono dell’umore, da grande nervosismo e irritabilità.
L’abbuffata si innesca come un comportamento automatico, ma può ben conciliarsi anche con attività quali guardare la televisione, ascoltare musica, distrarsi e altre ancora, dove non sia necessario pensare.
I cibi che vengono prevalentemente ricercati durante questi episodi sono prevalentemente dolci o alimenti ad alto contenuto di grassi.
Anche i carboidrati sono presenti, ma non in proporzioni esorbitanti rispetto alla loro normale assunzione durante gli altri pasti.
In definitiva, vengono preferiti proprio quei cibi che la persona di solito non si concede perché li considera “pericolosi” dal punto di vista calorico.
E’ importante specificare che l’inizio del disturbo può essere di tipo anoressico, per poi facilmente evolvere verso un quadro di Bulimia o Disturbo da Alimentazione Incontrollata, ma c’è un filo conduttore di tutti e tre questi Disturbi ed è un’intensa, continua e martellante ideazione sul cibo e forme corporee.
A volte i Disturbi del Comportamento Alimentare si associano ad altri disturbi psichiatrici; è necessario tenerne conto perché possono condizionare negativamente il decorso della malattia in termini di tendenza alla cronicizzazione e maggior predisposizione alla resistenza al trattamento.
Ciò è valido anche per l’influenza negativa che il disturbo alimentare può avere sul disturbo psichiatrico, laddove uno stato di compromissione cognitiva correlato ad una condizione di denutrizione può complicare notevolmente il normale decorso delle malattie associate.
I disturbi psichiatrici più comunemente associati ai disturbi del comportamento alimentare sono i disturbi dell’umore, della personalità, disturbi d’ansia e disturbi legati all’uso di sostanze o alcool.
L’associazione tra disturbi alimentari e disturbi psicotici è molto rara e comunque più frequente per l’anoressia.
L’abuso di sostanze e di alcool e la dipendenza da sostanze sono molto frequenti soprattutto in coloro che effettuano abbuffate e ricorrono a condotte di eliminazione e quindi in casi di Bulimia e Disturbo da Alimentazione Incontrollata.

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Bibliografia

  • “Il vaso di Pandora. Guida per familiari, amici, insegnanti e pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare” a cura di Laura Dalla Ragione, Paola Bianchini e Chiara de Santis, Associazione Mi fido di te onlus.
  • “Maestra, ma Sara ha due mamme?” a cura di Alessandra Gigli, Edizioni Guerini, 2011.