Quante coppie

In questo articolo riporterò alcune tipologie di coppie disfunzionali, traendo spunto dal libro di Willy Pasini “A che cosa serve la coppia”.
Le tipologie di coppie sono svariate e questo non vuole essere di certo un articolo per ridurre la coppia a delle semplici “etichette”, ma viene scritto sempre con la consapevolezza di poter dare spunti di riflessione a chi lo legge.

Pasini parla di Amore come possesso reciproco.
In queste coppie il piacere di controllare si trasforma in gusto del potere e in conflitti il cui unico obiettivo è non darla vinta all’altro.
Ogni pretesto è buono. L’attività del partner o il suo essere passivo. La sua autonomia o la sua dipendenza. L’ostinazione o l’arrendevolezza, l’amore dell’ordine o la trasandatezza.
In tali coppie, il partner dominante assume di solito atteggiamenti dispotici.
Non solo pretende fedeltà assoluta, ma vorrebbe pure che questa fosse una decisione spontanea dell’altro: insomma ambisce al controllo non solo dei comportamenti, ma anche della mente dell’altro.
Il partner passivo sopporta tutto, ben contento di poter delegare all’altro tutte le decisioni e di vivere sotto la sua protezione. Si tratta però di un meccanismo di potere: la resistenza passiva è solo il modo migliore per dominare il compagno, lasciandosi apparentemente dominare.
In situazioni di ordinaria quotidianità, basta poco per dare inizio all’escalation del litigio.
Lui, per esempio, sarebbe disponibile a preparare la colazione ogni tanto, ma non sopporta che sia la moglie a ordinarglielo.
Dominare per non essere dominati è il pensiero fisso di queste coppie, in cui nessuno prende l’iniziativa perché teme che l’altro possa interpretare il suo approccio come un segno di debolezza e sfruttarlo per avanzare pretese.

Continua parlando di Amore come nutrimento reciproco.
Immaginiamo i partner come madre e figlio: l’una deve continuamente accudire l’altro nei suoi inesauribili bisogni.
Lei trae piacere dal ritorno alla calma del bimbo dopo la poppata, lui dal nutrimento che riceve.
All’interno di questa coppia recita la parte del poppante chi non riesce ad identificarsi nel ruolo materno perché troppe sono le frustrazioni che ha vissuto con la sua vera madre: le funzioni materne che vengono rifiutate sono trasferite sul partner, che deve quindi corrispondere a un’immagine ideale di madre gratificante.

Vi è poi l’Amore inteso come dovere.
Generalmente in queste coppie i due si incontrano per infelicità.
La donna cerca aiuto, secondo un copione che si ripete sempre uguale. L’uomo è stato convinto dalla famiglia a mettere la testa a posto. Lei non è innamorata, ma si sposa pensando che prima o poi arriverà anche l’amore. Lui aspira solo a consolarla, attività che lo condanna a un continuo senso di frustrazione perché, nonostante tutti i suoi tentativi, la compagna non riemerge dal suo stato di insoddisfazione cronica. Quando però è lui che chiede aiuto, perché si è ammalato oppure a causa di difficoltà professionali, lei lo respinge: non vuole e non può dedicare al marito alcuna attenzione materna.

Pasini parla anche di Amore come fusione, parlando di coppia narcisistica.
Dirà di narcisisti è pieno il mondo, li riconosci perché fin dal primo incontro ti fanno sapere tutto di loro, i narcisisti dipendono dall’ammirazione altrui ed è per questo che amano circondarsi di persone la cui unica funzione è riflettere l’immagine di sé come protagonisti.
I narcisisti non riescono a concepire l’altro come individuo autonomo, ma solo come veicolo per un’ulteriore conferma del proprio sé.
Lascio immaginare i risvolti che questo può comportare in una coppia nella quale dall’Io si passa al Noi.

E voi vi siete ritrovati in qualche coppia descritta? Se non vi siete rivisti, come definireste la vostra coppia?
Vi rimando a questi altri articoli dove potrete trovare ulteriori spunti di riflessione Le disfunzioni sessuali nella dinamica di coppia e La coppia diventa famiglia.

Dott.ssa Alice Nucci

Quando i genitori si dividono: i temporali che scoppiano all’alba

La donna, anche se nei primi due anni di vita del figlio è soprattutto una mamma, fa parte comunque della coppia coniugale e non sempre questa doppia appartenenza procede in modo armonioso.
In un certo senso tutto ciò che turba i rapporti coniugali turba anche quelli materni e il figlio, che si trova nel punto d’intersezione delle coordinate, può venire sottoposto a tensioni non sempre tollerabili.
Nei primi tempi è la mamma che dovrebbe adattarsi al figlio. Se questo non avviene, sarà il bambino a adattarsi alla madre, sottoponendosi a uno sforzo eccessivo per la sua età.
Quando il piccolo, che non sa ancora parlare, si sente dimenticato o incompreso, reagisce con l’unico linguaggio che possiede, quello del corpo. I sintomi “parlano” per lui e molti disturbi dei neonati – come il pianto, l’insonnia, la diarrea, il vomito, le dermatiti atipiche- cessano di manifestarsi appena si comprende che cosa intendono esprimere e si risponde in modo adeguato.
Non solo adottando comportamenti più attenti, ma anche rassicurando il bambino con frasi come: “Ho capito che ti senti solo, ma ora ti starò più vicina, mi prenderò più cura di te. Sai la mamma in questi giorni è un po’ turbata perché papà è andato via, ma vedrai che domani verrà a prenderti e giocherete assieme”.
In questo modo si colloca il piccolo nella posizione di soggetto, anziché di oggetto, e si conferma la sua capacità di interagire emotivamente, di comunicare, se non verbalmente, nel codice degli affetti.
Un grave sintomo di rottura dell’equilibrio infantile è rappresentato da atteggiamenti, quali assenze mentali, scatti d’ira, irrequietezza motoria, incapacità di attenzione. Sembra che, spezzato il contenitore materno, il bambino non riesca ad assemblare i suoi pezzi e rincorra, da solo, un’impossibile unità.
Una delle soluzioni più comuni di fronte alla separazione, è quella di isolare la coniugalità dalla filiazione, di non dire nulla al figlio, di continuare la vita familiare come niente fosse, nascondendogli, per il “suo bene”, ogni indizio di crisi.

Aldo racconta: “I miei si sono separati quando ero ancora all’asilo e ricordo che la maestra preoccupata perché stavo sempre in un angolo, cupo e silenzioso, li mandò a chiamare. Venne così a sapere che si erano appena lasciati ma non credevano che io avessi problemi, dato che della questione non ne sapevo niente.”

Il bambino non parla perché non trova parole per esprimere il suo scompenso profondo. Occorre che il figlio si senta autorizzato a raccontare che cosa sta accadendo a casa sua e lo può fare solo se i genitori, informandolo, gli hanno mostrato che è giusto e possibile e hanno trovato espressioni che lui stesso può utilizzare.
Spesso queste omissioni, apparentemente casuali, provocano conseguenze a lungo termine.
Il mondo del bambino è stato destrutturato dalla separazione familiare e per ricomporlo egli ha bisogno di renderlo dicibile e condiviso.
Quando però il bambino è molto piccolo e non è ancora in grado di parlare, nel senso di comprendere e formulare un discorso articolato e compiuto, il silenzio sembra la cosa migliore.
Invece neppure in questo caso lo è, perché i più piccoli hanno mille antenne per captare le nostre tensioni, per condividere, anche senza saperlo, i nostri stati d’animo e, se li teniamo all’oscuro della realtà in cui sono immersi, oscuriamo anche parte della loro mente.
Nel momento della separazione, l’etica risiede nel porre al primo posto il bene dei figli.
Una constatazione troppo ovvia per essere esplicitata, un atteggiamento troppo difficile per non essere mai disatteso. Forte è infatti la tentazione di discolparsi, di porsi in buona luce, di far valere le proprie ragioni contro quelle dell’altro; impossibile non cedere mai, neppure per un attimo, alle pressanti richieste del narcisismo.
Ma non si chiede ai genitori di essere perfetti, tanto meno in questi frangenti, basta che siano genitori abbastanza buoni.

“I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili,
quanto dalla modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia.

JAMES HILLMAN, Il Codice dell’anima

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Bibliografia

  • “Quando i genitori si dividono, le emozioni dei figli” di Silvia Vegetti Finzi, Mondadori Editore, 2005.

Le disfunzioni sessuali nella dinamica di coppia

La sessualità umana non corrisponde, come quella animale, a un insieme di riflessi istintivi tendenti alla procreazione: è un comportamento che coinvolge tutto lo psichismo conscio e inconscio.
Ogni essere umano vive infatti nell’erotismo, soddisfacendone le pulsioni in modo più o meno sublimato.
Non sempre però da adulto raggiunge un’identità positiva che gli permetta una gratificazione sessuale nel rispetto di se stesso e del partner. Ne consegue un comportamento disturbato che può interessare uno o entrambi i componenti della coppia.

Le sessuopatie, clinicamente definite “disfunzioni sessuali”, sono oggi più frequenti del comune raffreddore.
E nell’oltre il 50 per cento dei casi sono psicogene, cioè conseguenza di un’immaturità psicologica. A volte infatti la maturazione affettiva non si accompagna a quella genitale, per cui vi sono uomini e donne adulti dal punto di vista fisico, ma non sul versante affettivo e sessuale.
Mentre le disfunzioni maschili relative a erezione, penetrazione ed eiaculazione sono fatti esterni e quindi evidenti, le defaillances femminili non sono visibili e possono perciò rimanere segrete.

Ma quando mancano il desiderio o il piacere genitale, quando la vagina rimane asciutta e chiusa, quando non si arriva all’orgasmo, anche la donna presenta una disfunzione sessuale.
Si parla di donne anorgasmiche totali, quando non hanno mai provato un orgasmo con un partner o da sole, di “dispaurenia” quando si prova dolore durante il coito, di “vaginismo“, cioè di contrazione involontaria dei muscoli vaginali che impedisce o rende difficile la penetrazione del pene.
La donna può essere disturbata nella sessualità per la presenza di conflittualità patologiche inerenti al suo vissuto infantile e adolescenziale.
Per la sessualità può nutrire sensi di colpa, per questo il piacere che deriva dal rapporto può essere inconsciamente impedito o disturbato, pur essendo desiderato e ricercato sul piano conscio.

Tenendo conto delle diverse definizioni che i vari studiosi danno delle disfunzioni sessuali, non si può non constatare la difficoltà di un’esatta classificazione nosografica delle stesse.
Si prenda, ad esempio, l’eiaculazione precoce. Masters e Johnson definiscono eiaculatore precoce l’uomo che non soddisfa la propria partner per almeno il 50% dei rapporti di coito.
Tale affermazione è però invalidata nel caso in cui la donna presenti difficoltà orgasmiche.
Spostando l’attenzione dall’individuo al sistema di due persone che interagiscono in una relazione sessuale ci poniamo in un’ottica che ci induce a rivedere le nostre interpretazioni della disfunzione sessuale.
E’ anche intuitivamente vero che nessuno può essere definito come afflitto da una disfunzione sessuale se non in rapporto ad un’altra persona e nel contesto di una relazione sessuale.
Quando due persone si incontrano e stabiliscono una relazione hanno dinnanzi a sé una gamma di comportamenti possibili.
Man mano che essi definiscono il loro rapporto, essi elaborano assieme quale tipo di comportamento comunicativo è opportuno per questo rapporto.

La natura dello stesso viene definita dal tipo di messaggi che essi decidono possa essere accettabile.
Tutti i comportamenti comunicativi possibili tra due persone possono essere, in modo sommario, suddivisi in comportamenti che definiscono una relazione simmetrica oppure complementare.
La prima può essere definita come una relazione in cui due persone si scambiano comportamenti dello stesso tipo: ognuno nella relazione prende l’iniziativa, dà giudizi, consiglia, stabilisce ecc, essa tende per definizione ad essere competitiva.
La seconda invece stabilisce un rapporto di complementarietà. Uno ha un tipo di comportamento, l’altro ne ha uno diverso. Uno insegna, l’altro impara, uno parla, l’altro ascolta ecc, uno si trova in posizione one up l’altro one down.

In un rapporto sessuale, affinché possa considerarsi “normale” troveremo entrambi i tipi di relazione, simmetria e complementarietà.
Vi è infatti complementarietà nel dare e ricevere piacere, quindi uno dà e l’altro riceve, alternandosi, anche se simultaneamente. Vi è quindi simmetria in quanto ciascuno reclama o richiede all’altro pari prestazione, si da rimanere soddisfatti entrambi i partner.
Diviene importante leggere le disfunzioni sessuali maschili o femminili che siano, all’interno di una complessa dinamica di coppia che permetta di ampliare la visuale rivolta al singolo.

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Bibliografia

  • “Che cos’è l’amore” l’affetto e la sessualità nel rapporto di coppia, Giacomo Dacquino, 1994, Mondadori.

La violenza in famiglia

«Poiché violenza genera violenza, nella famiglia la violenza tende a
perpetuarsi di generazione in generazione»

– Bowlby –

Per arrivare a comprendere i casi estremi di violenza nella famiglia, può essere utile considerare prima quello che conosciamo dei casi minori ed ordinari che si verificano nella famiglia quando i suoi membri sono presi da sentimenti di rabbia.

I bambini piccoli, e spesso anche i più grandi, sono gelosi in genere dell’attenzione che la madre dà al nuovo nato. Gli amanti litigano se uno pensa che l’altro si stia rivolgendo altrove, e lo stesso vale dopo il matrimonio. Inoltre, una donna può infuriarsi con il figlio se il bambino fa qualcosa come attraversare di corsa la strada, ed anche il marito se questi per affrontare pericoli inutili rischia un arto o la vita.
Quindi diamo per scontato che usualmente, quando il rapporto con una persona particolarmente amata viene messo in pericolo, siamo non solo ansiosi ma anche arrabbiati.
Come risposte alla minaccia della perdita, ansia e rabbia vanno insieme. Non per nulla hanno la stessa radice etimologica. Spesso, nelle situazioni descritte, la rabbia è funzionale. Perciò, nel luogo giusto, al momento giusto ed al livello giusto, la rabbia non solo è appropriata ma può essere indispensabile. In ogni caso, l’obiettivo del comportamento di rabbia è lo stesso: proteggere un rapporto che ha un valore molto particolare per la persona arrabbiata. Stando così le cose, è necessario chiarire perché alcuni rapporti specifici, spesso chiamati rapporti d’amore, debbano divenire così importanti nella vita di ciascuno di noi.
I rapporti specifici, che se minacciati possono suscitare rabbia, sono di tre tipi principali: rapporti con un partner sessuale, fidanzato o coniuge, rapporti con i genitori, rapporti con i figli. Ognuno di questi rapporti è carico di forti emozioni.

La tesi di Bowlby consiste nel considerare gran parte della violenza disadattiva della famiglia come una versione distorta e sproporzionata di un comportamento potenzialmente funzionale, in particolare il comportamento di attaccamento da un lato, ed il comportamento di allevamento dall’altro.
Appare evidente che cure sensibili e amorevoli determinano nel bambino lo svilupparsi della fiducia che gli altri saranno disposti ad aiutarlo se necessario, il divenire sempre più sicuro di sé e coraggioso nell’esplorare il mondo, collaborativo con gli altri, ed anche empatico e di sostegno per altri in difficoltà.
Al contrario, quando al comportamento di attaccamento del bambino si risponde lentamente e malvolentieri, come se si fosse disturbati, il bambino può attaccarsi in modo ansioso e divenire apprensivo per paura che chi lo accudisca scompaia o non sia di aiuto nel momento di bisogno e perciò è restio ad allontanarsi dalla madre, obbedisce malvolentieri ed in modo ansioso ed è indifferente ai problemi altrui. Se inoltre il bambino è rifiutato attivamente dagli adulti che lo accudiscono, può sviluppare un modello di comportamento in cui l’evitamento compare con il desiderio di vicinanza e di cure ed il comportamento di rabbia tende a divenire prominente.

Bambini maltrattati

Considerando gli effetti sullo sviluppo di personalità dei bambini maltrattati, dobbiamo tenere presente che le aggressioni fisiche non sono le uniche forme di ostilità che questi bambini hanno sperimentato da parte dei genitori. In moltissimi casi infatti gli attacchi fisici non sono che la punta dell’iceberg, i segni manifesti di quelli che sono stati gli episodi ripetuti di un rifiuto ostile, verbale e fisico. Perciò nella maggior parte dei casi gli effetti psicologici possono essere considerati come il prodotto di un rifiuto e di un disinteresse prolungato ed ostile. Ciononostante, le esperienze dei singoli bambini possono variare ampiamente.
Alcuni, ad esempio, possono ricevere delle cure materne sufficientemente buone e subire solo raramente esplosioni di violenza da parte di un genitore. Per questi motivi non c’è da sorprendersi del fatto che anche lo sviluppo socioemotivo dei bambini può variare. Qui di seguito vengono descritti alcuni risultati che sembrano essere tipici.
Gli studiosi che hanno osservato questi bambini nelle loro case o altrove li descrivono variamente come depressi, passivi e inibiti, “dipendenti” e ansiosi, arrabbiati e anche aggressivi. Graensbauer e Sands nel confermare questo quadro, sottolineano quanto possa essere disturbante un comportamento del genere per chi si prende cura del bambino. I bambini non riescono a partecipare al gioco e mostrano di divertirsi poco o affatto.
Spesso l’espressione del sentimento è così attenuata che è facile non rilevarla, o altrimenti è ambigua e contrastante. Il pianto può essere prolungato e insensibile al conforto; la rabbia può insorgere rapidamente, violenta e non facilmente risolubile.
Una volta stabiliti, questi schemi tendono a persistere.

Donne maltrattate

Passiamo ora ad esaminare il comportamento degli uomini che maltrattano le loro ragazze o mogli.
L’ipotesi che la maggioranza di uomini sia costituita da bambini maltrattati ora cresciuti è confermata da molte ricerche. Uno studio rilevava che da quanto riferivano le mogli, 51 su 100 uomini violenti erano stati picchiati a loro volta da bambini. Inoltre, 33 su 100 uomini erano stati già accusati di altri reati di violenza. Le ricerche mostrano che la maggioranza di delinquenti violenti proviene da famiglie in cui essi stessi hanno ricevuto un trattamento crudele e brutale.
Infine troviamo che molte delle mogli picchiate provengono da famiglie disturbate e rifiutanti dove in minoranza significativa sono state picchiate da bambine. Queste esperienze le hanno condotte a lasciare la loro casa durante l’adolescenza, a legarsi con quasi il primo uomo conosciuto, proveniente molto spesso da un ambiente simile al loro, e a restare presto incinte. Il doversi occupare di un bambino piccolo crea mille problemi alla ragazza che è impreparata ed ha un attaccamento ansioso; inoltre le attenzioni che rivolge al bambino provocano un’intensa gelosia nel suo partner. Questi sono alcuni dei processi attraverso cui si perpetua un ciclo intergenerazionale di violenza.
I modelli di interazione in alcune di queste famiglie sono risultati abituali: la coppia si separava ripetutamente per ritornare insieme solo dopo pochi giorni o settimane.
Talvolta, dopo le dure parole della moglie, il marito se ne andava per conto suo, per ritornare dopo poco tempo. Oppure la moglie, aggredita fisicamente dal marito, se ne andava con i figli, ma ritornava in pochi giorni alla stessa identica situazione.
Quello che appariva veramente straordinario era la durata di alcuni di questi matrimoni: che cosa teneva uniti i due partner?
È emerso che sebbene apparentemente la scena fosse dominata dalla violenza del marito e dalle parole minacciose e rabbiose della moglie, ogni partner era legato profondamente anche se in modo ansioso all’altro ed aveva sviluppato una strategia per controllare l’altro e per evitare di essere abbandonato.
Venivano utilizzate varie tecniche, soprattutto coercitive, molte delle quali potevano sembrare ad un estraneo di un genere non solo estremo ma controproducente.
Ad esempio, erano frequenti le minacce di abbandono e di suicidio, non erano rari gli atti di suicidio. Questi ultimi producevano in genere l’effetto di assicurarsi rapidamente l’attenzione premurosa del partner anche se facevano insorgere il suo senso di colpa e la sua rabbia. Si è visto che la maggior parte dei tentativi di suicidio erano in reazione ad eventi specifici, in particolare ad abbandono reali o minacciati.
Una tecnica coercitiva, utilizzata soprattutto dagli uomini, consisteva nell'”imprigionare” la moglie chiudendola dentro casa, chiudendo a chiave i suoi vestiti, oppure tenendosi tutti i soldi e facendo la spesa per evitare alla moglie di vedere chiunque altro. L’attaccamento fortemente ambivalente di un uomo che adottava questa tecnica era tale che non solo rinchiudeva la moglie dentro casa, ma la rinchiudeva anche fuori. La buttava fuori casa dicendole di non tornare mai più, ma dopo che lei si trovava per strada, la rincorreva e la portava indietro fino all’appartamento.
Una terza tecnica coercitiva consisteva nel picchiare. Come diceva un uomo, nella sua famiglia le cose si chiedevano sempre con i pugni. Nessuna donna gradiva questo trattamento, ma alcune ne ottenevano una certa soddisfazione. È risultato che nella maggioranza di questi matrimoni, ogni individuo tendeva a sottolineare quanto fosse indispensabile per l’altro, mentre non riconosceva il proprio bisogno del partner. Naturalmente, intendevano per bisogno ciò che Bowlby chiama il desiderio di una figura che li accudisse. Erano terrorizzati soprattutto dalla solitudine.

È proprio perchè in queste famiglie gli schemi tendono a perpetuarsi e le persone vengono coinvolte in rapporti contrastanti e ambivalenti senza esserne pienamente consapevoli che diviene necessario per loro richiedere un aiuto esterno, parlarne con amici, familiari e/o rivolgersi ad un professionista per elaborare assieme tali vissuti.

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Bibliografia

  • La violenza nella famiglia, John Bowlby, Terapia Familiare, 1986.
  • Attaccamento e perdita, John Bowlby, ed. Boringhieri, 1983.

La coppia diventa famiglia

Con la nascita del primo figlio la coppia viene riconosciuta come famiglia a tutti gli effetti.
A tale riguardo però occorre dire che la coppia di per sé, quando è ben fondata, è già una famiglia in quanto ha carattere di generatività.
Infatti la generatività della coppia scaturisce dall’amore che la costituisce e si manifesta in alcune espressioni fondamentali: capacità di donare, di accogliere, di prendersi cura, di progettare.
La nascita del primo figlio è la naturale conseguenza di questa generatività e attribuisce alla coppia lo “status” di famiglia. Questo riconoscimento viene innanzitutto da parte dei nonni che smettono di considerare i due coniugi come “i ragazzi” e mandano loro messaggi intesi a qualificarli come genitori.
Il rapporto della giovane coppia con i reciproci genitori subisce evoluzioni diverse: si può verificare un recupero del rapporto madre – figlia, oppure può emergere una competitività latente. La giovane mamma può manifestare bisogno di aiuto e consiglio oppure può nutrire un senso geloso di esclusione.
I due coniugi portano nella famiglia che si accingono a costruire tutte le influenze vissute nella famiglia d’origine: una miriade di messaggi, tutti fedelmente registrati e incancellabili, su di sé, sui rapporti genitori – figli, sui rapporti di coppia, su ruoli e concezioni di vita, una lunga serie di giudizi e pregiudizi con tutti i sentimenti ad essi collegati. Nel rapporto con il figlio tutte queste influenze vengono attivate in modo spesso inconsapevole e in forme diverse:

  • o si tende a ripetere i comportamenti dei genitori anche quando se ne riconosce la manchevolezza o problematicità;
  • o si reagisce ad essi facendo l’esatto contrario, con una radicalità che manca ancora una volta di equilibrio;
  • o si oscilla dall’una all’altra parte.

Inoltre le influenze della famiglia paterna si amalgamano con quelle della famiglia materna.
E’ questo il punto cruciale, solo se possiamo permetterci di essere diversi dai nostri genitori potremo permettere ai figli di essere diversi da noi. Altrimenti si perpetuano catene di dipendenze e storie che si ripetono.
Per tornare alla nascita del figlio diciamo che tutti i rapporti devono essere reimpostati, emergono nuovi ruoli, quelli dei nonni innanzitutto, ma anche degli zii etc.

Ma dentro la coppia che cosa avviene?

Un figlio unisce i due per la vita, ma nello stesso tempo separa; innanzitutto si intromette nella coppia e sottrae tempo all’intimità del rapporto; la giovane madre prova sentimenti tutti nuovi di tenerezza, di protezione, di orgoglio, a volte anche di possesso.
Sente anche su di sé una nuova responsabilità, quella di accudire il figlio nel modo migliore e a volte può temere di non farcela. Questo può far nascere in lei sentimenti di inadeguatezza o di colpa, la sensazione di non essere una buona madre.
In conseguenza di ciò si aspetta dal marito un supplemento di aiuto e comprensione e questi d’altra parte si trova nella situazione di dover dare di più ricevendo di meno e spesso sentendosi escluso e trascurato.
La coppia deve tener conto che il sentimento materno è diverso da quello paterno: il primo più istintivo ed esclusivo, il secondo più razionale e bisognoso di tempo per crescere e definirsi nel rapporto col figlio.
I coniugi, prima del nuovo arrivo, hanno creato un’identità di coppia: la costruzione del nido, interessi e abitudini comuni, progetti di vita, rapporti sociali, tutto ciò che li qualifica come un “noi”. Il figlio sfida l’identità di coppia e la rimette in discussione su molti versanti.
La coppia che progetta di costruire una famiglia deve mettere in conto che occorre tutta una vita per capirsi e che il rapporto, costruito giorno dopo giorno, deve crescere nel succedersi delle diverse fasi fino alla fine. Ci vuole poco tempo per scoprire i difetti dell’altro, ma occorre una vita per scoprirne le qualità.
Riconosciuta la diversità dell’altro ci si può trovare lontani, quasi estranei. La mancanza di conoscenza dei dinamismi della coppia può ingigantire le difficoltà e creare sconforto.
Per tutto ciò bisogna mantenere vivo il dialogo, un dialogo costruito sulla manifestazione di sé e sull’ascolto.
Serve restare in contatto con i propri sentimenti, sforzarsi di percepirli e manifestarli all’altro, non dare mai niente per scontato, non pensare cioè che l’altro possa capire i sentimenti del coniuge ed i veri motivi del suo comportamento senza che questi glieli abbia detti.
Quindi saper ascoltare l’altro, saper arrivare a delle mediazioni, in quanto il matrimonio si fonda in gran parte su un saggio lavoro di mediazione, è una contrattazione continua, una spartizione di compiti e di potere dalla quale nasce lentamente una collaborazione sempre più decisa.
La coppia deve reimpostare i rapporti con le reciproche famiglie d’origine. Questo non vuol dire voltare le spalle alle proprie famiglie di origine, ma che la coppia ha bisogno di tracciare chiaramente i suoi confini, di definire uno spazio tutto suo su cui costruire una nuova famiglia con nuove abitudini e una nuova cultura, mediazione e sintesi delle culture di provenienza.
Infine occorre menzionare l’importanza dell’apertura all’esterno: agli amici reciproci e comuni, alle altre famiglie, al mondo in una dialettica continua di costruzione interna e di interazione con l’esterno in cui la coppia ha bisogno di crescere, evitando di ripiegarsi su se stessa.

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Riferimenti

  • Giannina Semprini, responsabile del “Centro Don Milani”, centro di prevenzione, psicoterapia e formazione.

Sessualità e impotenza

In quale periodo dell’evoluzione sessuale abbia avuto luogo la nascita della coppia non è dato sapere, ma i paleontologi ritengono che la collaborazione di vita fra l’uomo e la donna abbia avuto inizio proprio nelle popolazioni presso le quali gli aspetti genitali e cerebrali dell’attività sessuale erano tali da indurre le coppie a restare unite almeno per il tempo necessario ad allevare la prole e a costituire una famiglia. E questa operazione vitale non poteva essere raggiunta senza l’uso di un linguaggio.
Alla base della coppia c’è l’attrazione dei sessi, potente, fondamentale, che ha come fine biologico la perpetuazione della specie. Ma non solo, visto che la sessualità umana non è essenzialmente “genitale” ma anche psicologica.

Continuando a parlare di sessualità, riteniamo affetto da eiaculazione precoce l’uomo che lamenta la comparsa dell’eiaculazione dopo una breve eccitazione, se invece manca di erezione ha una impotenza e quando una donna dichiara di non provare l’orgasmo ha un’anorgasmia. Eiaculazione precoce, impotenza, eiaculazione assente o ritardata ecc. sono considerate nella letteratura specialistica e spesso nella pratica clinica malattie. Così facendo, da un punto di vista terminologico, si ricorre a criteri empirici e prescientifici come quando in medicina si identificava il sintomo più evidente per assegnare un nome alla malattia e da un punto di vista descrittivo si definisce la malattia del medico e non quella dell’ammalato.
La malattia è da intendere come una condizione o status che interessa tutta la persona nella sua globalità psico-fisico-relazionale. La malattia dunque non è semplicemente un sintomo o un insieme di sintomi, ma un particolare modo di essere nel mondo, una nuova dimensione della vita che nasce dalla rottura degli equilibri psicofisiologici capaci di mantenere la persona in uno stato di salute. Eiaculazione precoce come impotenza, anorgasmia ecc. sono sintomi e non malattie.
Così, curare l’impotenza erettile come se si trattasse semplicemente della compromissione dell’evento vascolare che permette la penetrazione vaginale, significa ignorare le componenti emotivo-affettive e relazionali che accompagnano quella compromissione e che nel loro insieme accompagnano lo stato di malattia.
Il termine impotenza comprende tutte le alterazioni della risposta sessuale che assumono significatività per la costituzione dell’essere uomo o donna, si riconoscono quindi un’impotenza sessuale maschile e femminile.
Impotenza sessuale maschile. Incapacità di essere uomo, incapacità che può nascere dalla reale o presunta compromissione di una, alcune o tutte le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali che caratterizzano la virilità in un determinato contesto socioculturale.
Impotenza sessuale femminile. Incapacità di essere donna, incapacità che può nascere dalla reale o presunta compromissione di una, alcune o tutte le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali che caratterizzano la femminilità in un determinato contesto socioculturale.
Le definizioni sono sovrapponibili e accomunate dal vissuto di inadeguatezza che le caratterizza.
In esse figurano alcune affermazioni che è bene esplicitare.

  1. Reale o presunta compromissione. Non tutti i sintomi che i pazienti segnalano e che rappresentano per loro l’occasione per elaborare un vissuto di inadeguatezza, corrispondono ad una reale compromissione. Alcuni fanno riferimento ad eventi propri della fisiologia che il paziente interpreta erroneamente come manifestazione di insufficienza strutturando uno stato di malattia assolutamente privo di contesto fisiopatologico (malato senza malattia). La perdita dell’erezione dopo svariati tentativi di introduzione resa impossibile dal fatto che la partner reagisce involontariamente con una contrazione spastica della muscolatura dell’ostio vaginale (vaginismo) può essere erroneamente intesa come una compromissione della funzione erettile e sostenere quindi un vissuto d’impotenza.
  2. Tutte le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali. Con questa espressione si fa riferimento a quelle componenti della mascolinità o femminilità che caratterizzano l’incontro sessuale e la cui compromissione viene riferita come sintomo. Tali variabili possono essere di ordine:
    • anatomo-patologico (malformazioni, mutilazioni traumatiche o chirurgiche, patologie organiche);
    • fisiologico (erezione, eiaculazione e orgasmo per l’uomo);
    • psicologico (desiderio del rapporto e della coabitazione vaginale, soddisfazione);
    • comportamentale (corteggiamento, conquista, frequenza, durata, abilità erotiche.
  3. In un determinato contesto socioculturale. Ciascuna cultura produce le sue malattie. Le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali assumono rilevanza nel definire la sessualità maschile e femminile solo in rapporto ai significati che la cultura attribuisce loro.

Parlerò qui di seguito di altri tipi di impotenza: organica, psichica, mista e impotenza di coppia.

Impotenze organiche

Le impotenze organiche sono sostenute dalla compromissione dello stato generale di sanità e/o dal danno anatomo funzionale di natura morfologica, chirurgica, degenerativa, neoplastica o tossica che colpisce un organo o un apparato. Tale compromissione può impedire totalmente o parzialmente, ma sempre in maniera prevalente rispetto alle concomitanti cause psicologiche, una, alcune o tutte le funzioni che costituiscono la fisiologia della risposta sessuale.
I fattori organici possono influire negativamente sulla risposta sessuale in maniera diversa.

Impotenza psichica

L’impotenza psichica è sostenuta dalle componenti psicologiche intrapersonali e/o relazionali che impediscono lo svolgersi della risposta sessuale le quali, pur dominando sempre il quadro patologico rispetto a concomitanti affezioni organiche, possono assumere un ruolo favorente, determinante, scatenante, di mantenimento o aggravante.
Fattori favorenti. Da un punto di vista intrapersonale possono agire come favorenti la disinformazione sessuale e/o le false conoscenze, l’adesione alle mode o ai miti socialmente costruiti (il maschio superdotato, la femmina pluriorgasmica), le condizioni dell’umore (depressione), una generica insicurezza, l’essere tendenzialmente ansiosi, una storia psicoevolutiva caratterizzata dalla difficoltà a fruire serenamente del piacere (educazione repressa) oppure dall’incerta costruzione dell’identità sessuale o dalla facilità a vivere sensi di colpa. Ha funzione favorente anche la qualità della relazione per la perdita delle potenzialità deduttive, la presenza di malattie fisiche o disturbi psicologici che limitano la disponibilità dell’altro, le modeste e transitorie crisi coniugali.

Impotenze miste

Le impotenze miste sono determinate dalla possibile concomitanza dei fattori organici con quelli psicologici o di quelli intrapersonali con le cause relazionali.

Impotenza sessuale di coppia

L’impotenza sessuale di coppia viene definita come l’incapacità della coppia di avere una soddisfacente vita sessuale per la compromissione della risposta sessuale che può colpire uno, l’altro o entrambi i partner, causata da una struttura relazionale patogena. Anche questa definizione si fonda sulla considerazione del vissuto, seppure non con la stessa frequenza rilevata per l’impotenza individuale, i pazienti usano un linguaggio che può avere significato diagnostico. I membri della coppia che vive un matrimonio bianco usano espressioni come “Non siamo capaci di avere rapporti” oppure “Non siamo una coppia come si deve” o anche “Per noi la sessualità è un problema”; nei casi in cui è la reciproca aggressività a sostenere i disturbi, i segni verbali sono caratterizzati da una precisa formulazione accusatoria: “Mia moglie mi ha spinto a venire perché dice che sono impotente” o “Sono venuto solo per accompagnarla perché è lei che si deve far curare” e infine da parte dell’accusato “Si è vero non abbiamo rapporti, mi spiace, ma non so cosa farci”. Generalmente mancano sensazioni soggettive di incapacità da parte del portatore del sintomo, mostrando di avere l’inconsapevole percezione che il sintomo esprime la compromissione di qualcosa di diverso dalla sua persona. Nel rivolgere l’attenzione anche alla coppia, l’indagine clinica si è arricchita: la rilevazione delle impotenze di coppia è stata pressoché contemporanea ad una diversa sensibilità culturale rispetto ai temi del comunicare e del relazionare che ha interessato il pensiero collettivo e scientifico. Così, per esempio, dagli anni ’70 le persone hanno incominciato a presentarsi in coppia e oggi avviene sempre più di frequente, mentre chi si reca alla consultazione da solo è più disponibile a coinvolgere il partner il quale, a sua volta, raramente oppone resistenze. Ciò non significa che la richiesta comune dei partner sia il segno di un’impotenza di coppia, ma è di certo un richiamo a considerare il loro essere assieme e non solo la sofferenza di uno dei due.

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Bibliografia

  • Rifelli G. (1998), Psicologia e psicopatologia della sessualità. Il Mulino, Bologna.
  • Rifelli G., Moro P. (1989), Sessuologia clinica. Vol 1: Sessuologia generale. CLUEB Editore, Bologna.
  • Rifelli G., Moro P. (1989), Sessuologia clinica. Vol 2: Impotenza sessuale maschile, femminile e di coppia. CLUEB Editore, Bologna.
  • Andolfi M. (2003), La crisi della coppia. Una prospettiva sistemico – relazionale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Il ciclo vitale della coppia e della famiglia

La famiglia è un sistema vivente, il cui sviluppo avviene per “stadi” all’interno della dimensione tempo: essa passa attraverso una serie di “epoche”, ognuna consiste in un “periodo di transizione”.

Durante le transizioni si verificano profonde trasformazioni psicologiche e a livello strutturale.
Nel corso del suo ciclo di vita, ogni gruppo familiare passa attraverso una serie di stadi che richiedono dei cambiamenti di ruolo intrafamiliari, dall’altra parte il coinvolgimento dei singoli membri in altri sistemi sociali (scuola, mondo del lavoro etc…) fa si che ogni soggetto di fronte a determinati “passaggi” debba affrontare dei cambiamenti del proprio ruolo, proprio perché tale fase lo richiede.
Secondo J. Haley (1973) quando una famiglia non riesce ad effettuare il cambiamento e si blocca in una certa tappa del ciclo vitale, interrompendone l’evoluzione, nascono i sintomi a carico di uno o più membri della famiglia. L’obiettivo della psicoterapia familiare è allora quello di riattivare una crescita della famiglia, che si evidenzia con il passaggio alla fase successiva di ciclo vitale.

Le autrici Carter e Mc Goldrick hanno elaborato un modello di funzionamento della famiglia normale che implica la considerazione di almeno tre generazioni e che si snoda su due livelli differenti, uno verticale (generazionale) e uno orizzontale, legato agli accadimenti della vita.
In accordo con questo modello, il sintomo o il conflitto che blocca il sistema familiare nel suo percorso evolutivo si colloca quindi nell’intersezione tra gli eventi stressanti verticali (vincoli e difficoltà ereditate dalle generazioni precedenti) ed eventi stressanti orizzontali (legati agli accadimenti della vita).
Talvolta tale intreccio può risultare incrinato, rallentato o ingarbugliato. In tal senso per  un ciclo di vita bloccato risulta terapeutico ri-narrare e ridare un significato più funzionale alla storia vissuta.

Carter e McGoldrick presentano una suddivisione del ciclo di vita in sei stadi: il giovane adulto, la nuova coppia, la famiglia con bambini piccoli, la famiglia con adolescenti, l’allontanamento dei figli, la famiglia in tarda età.

Nella fase precedente la formazione della famiglia, è indispensabile il “distacco emotivo” del giovane dal gruppo di origine e ciò si concretizzerà attraverso la differenziazione e definizione del proprio sé rispetto ai familiari, nell’ambito del lavoro e delle relazioni con i pari.

E’ il periodo in cui si passa dall’adolescenza all’età adulta. Il giovane deve apprendere delle competenze relazionali e utilizzarle nella sua vita sociale, lasciando la base sicura offerta dalla famiglia per affrontare esperienze di studio, lavorative, sentimentali, che comportano un distacco fisico o emotivo dai familiari. Questo processo di distacco è chiamato individuazione; inizia nell’adolescenza e si conclude con il distacco fisico e/o emotivo della persona dalla famiglia.  Per arrivare a questa differenziazione è necessario un movimento disgiuntivo da parte di tutti i membri del sistema, tra i quali avviene la negoziazione delle modalità di distacco. Le famiglie invischiate avranno maggiori difficoltà a negoziare questo distacco perché i vari membri lo sentiranno come una sorta di tradimento.

La fase della coppia

Un lavoro positivo di ristrutturazione, deve portare all’organizzazione del sistema di coppia e si devono “ridefinire” le relazioni con le famiglie estese e con i gruppi di appartenenza dei coniugi o conviventi. Si può verificare che in alcune famiglie, uno o entrambe i membri della coppia non hanno rielaborato in modo costruttivo, il distacco dalla propria famiglia di origine (scarsa differenziazione), per cui risulta limitata la capacità di realizzare un efficace coinvolgimento nel nuovo gruppo familiare e da qui possono sorgere problemi all’interno della nuova coppia.

La nuova coppia dovrà negoziare un considerevole numero di regole relazionali, che non vengono discusse, ma semplicemente agite. Nel mettere in atto il processo di accomodamento reciproco, ognuno dei membri della coppia mette in atto una serie di modelli transazionali appresi dalla propria famiglia d’origine cercando di imporli al partner. Questo produrrà tensioni, ma gradualmente la coppia giungerà a creare modelli transazionali condivisi da entrambi.
Un altro compito molto importante sarà quello di stabilire una giusta distanza emotiva dalle famiglie d’origine, costruendo un nuovo tipo di rapporto con i genitori, i fratelli  e i parenti acquisiti, allo scopo di avere uno spazio in cui sperimentare la propria autonomia di persone adulte.

Nel terzo stadio, quello della famiglia con bambini piccoli, il processo emozionale centrale è l’accettazione di questi come nuovi membri del sistema.
La nascita di un figlio, soprattutto del primogenito, produce nel sistema familiare innumerevoli cambiamenti; nasce infatti il sottosistema genitoriale accanto a quello coniugale già esistente, mentre nelle famiglie d’origine dei neo-genitori si creano i ruoli di nonni e di zii. Molti accordi stabiliti nel primo periodo del matrimonio devono essere rivisti e subiscono cambiamenti, così come i modelli transazionali messi a punto in precedenza, in virtù del fatto che da uno schema relazionale a due si passa ad una triade.
Con la nascita di un bambino si passa dallo stato di figli a quello di genitori, con un’ulteriore maturazione psicologica della coppia genitoriale; tuttavia in questo periodo problemi pratici ed organizzativi fanno sì che la giovane coppia sia piuttosto coinvolta con le rispettive famiglie d’origine. Ciò può provocare ingerenze da parte degli altri nell’educazione del figlio.
La stessa educazione della prole può essere causa di conflitto tra i genitori, i quali possono avere stili educativi differenti, più o meno permissivi.

Nella famiglia con adolescenti, deve essere aumentata la flessibilità dei confini all’interno della famiglia, per permettere l’indipendenza dei giovani. Se ciò avviene, l’adolescente si sentirà libero di entrare e uscire dal sistema famiglia senza nessun tipo di condizionamento o di costrizione.
Uno dei momenti critici del periodo centrale del matrimonio è l’ingresso dei figli a scuola, per due ragioni: I° perché eventuali discrepanze nello stile educativo dei due genitori più facilmente diventano evidenti, in un contesto nel quale se ne può valutare l’effetto; II° perché l’ingresso del bambino a scuola rappresenta la prima esperienza di uscita del bambino dal nucleo familiare e i suoi genitori cominciano a fare esperienza del fatto che mano a mano che il figlio cresce, sempre più si allontanerà dai genitori e i due coniugi resteranno soli, uno di fronte all’altro.
In questo periodo del ciclo vitale della famiglia non ci sono cambiamenti nella composizione, tuttavia i cambiamenti strutturali sono causati dal fatto che i figli crescono e si verifica un lento e progressivo svincolo dalle figure genitoriali. La crisi adolescenziale può essere vista come una lotta tra genitori e figli per mantenere le vecchie posizioni gerarchiche all’interno del sistema familiare, a fronte di richieste di crescita e di cambiamento da parte dell’adolescente.

Con i figli adulti, il processo emozionale centrale sarà l’accettazione di un numero sempre maggiore di movimenti in uscita da e di entrata nel sistema: in pratica ciò comporterà nuovi interessi entro il sottosistema coniugale degli adulti, lo sviluppo di relazioni alla pari tra genitori e figli adulti e la ridefinizione di relazioni per includere nipoti e generi/nuore.

Il movimento di emancipazione dalla famiglia d’origine deve essere incoraggiato dai genitori i quali devono inviare messaggi incentivanti e di stima, comunicando al figlio che è pronto per farcela.
La ragione per la quale il passaggio a questa fase può essere difficoltoso sta nel fatto che spesso la coppia dà più spazio agli aspetti genitoriali della relazione, rispetto agli aspetti coniugali. Perciò in genere il matrimonio entra in una crisi che progressivamente si dissolve, mano a mano che i due coniugi risolvono i loro conflitti e trovano un nuovo modo di essere coppia, permettendo al figlio di avere il proprio partner e la propria professione.

Il momento del pensionamento e della vecchiaia. Il pensionamento produce dei cambiamenti nella struttura familiare dal momento che la persona, concludendo la sua vita lavorativa, si ritrova a vivere la più rilevante parte del tempo in famiglia, coinvolgendosi maggiormente all’interno della famiglia. Dal momento che si conclude la vita lavorativa dell’individuo, il periodo del pensionamento è spesso connotato da tristezza, sentimenti depressivi, senso di inutilità legato alla mancanza di produttività. Allora accade talvolta che una persona della famiglia sviluppi una sofferenza psichica, dando modo al pensionato di occuparsene e di farlo sentire utile.
Ad un certo punto della vita uno dei due coniugi rimarrà vedovo e dovrà rientrare in famiglia, dove le generazioni più giovani si prenderanno cura di lui. Anche questo può essere un momento di crisi che può indurre la famiglia a ricoverare l’anziano in un istituto.

Riguardo alle fasi del ciclo vitale sopra descritte è indispensabile avere la flessibilità di cambiare i ruoli dei singoli membri e la flessibilità di cambiare la “struttura” della famiglia per arrivare ad un nuovo equilibrio che sappia fare fronte davanti al “cambiamento” (Minuchin, Famiglie e Terapia della Famiglia).

Quando questo non avviene, il terapeuta può aiutare i membri a rinegoziare il quid pro quo a ogni passaggio, da una fase del ciclo vitale a un’altra.
La psicoterapia  ha come scopo quello di capire, con l’aiuto del terapeuta, come la storia delle relazioni possa aver portato ad una situazione di impasse, di sofferenza ed eventualmente alla presenza di un sintomo in uno dei suoi membri.
Con la terapia si favorisce la possibilità di trovare nuove e più funzionali modalità di ascolto reciproco e di espressione dei bisogni personali. L’intervento terapeutico ha come scopo, sia la soluzione del problema, o del conflitto, presentato dalla famiglia, che il benessere psicofisico di ciascun suo membro, favorendo un incremento della differenziazione del sé rispetto agli altri.

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Bibliografia

  • Andolfi M., La crisi della coppia, Cortina, Milano, 1999.
  • Minuchin S., Famiglie e Terapia della Famiglia, 1977.