Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è una delle dieci malattie mentali più invalidanti e che determina una peggiore qualità di vita, secondo quanto indicato dall’Organizzazione Mondiale di Sanità (OMS).
La prevalenza del DOC nel corso della vita è del 2.5%.
Diversi studi hanno dimostrato che la qualità di vita di questi pazienti è peggiore di quella delle persone con depressione, schizofrenia e dipendenza da sostanze.
Secondo il DSM-5, pensieri suicidari sono presenti nella metà degli individui con DOC, e circa il 25% di pazienti tenta il suicidio.

Le persone con DOC hanno una qualità di vita molto bassa, infatti il DOC può distruggere le relazioni interpersonali, portando gli individui a conflitto coniugale, separazione e divorzio, e può anche interferire pesantemente con la capacità delle persone di studiare o lavorare.
Infatti, per quanto riguarda la realizzazione scolastica/lavorativa, sappiamo che molti pazienti con DOC non riescono a studiare né a lavorare, o hanno un’occupazione ben al di sotto dei loro titoli di studio e delle loro capacità.
Inoltre, hanno problemi nello svolgere le normali attività quotidiane, e le loro relazioni sociali e sentimentali risultano profondamente danneggiate.

Tra i criteri diagnostici ricordati nel DSM per definire il Disturbo Ossessivo Compulsivo di personalità vi sono: pensieri, impulsi o immagini ricorrenti e persistenti vissuti come intrusivi e inappropriati.
Nel DOC vi è un’eccessiva importanza attribuita ai pensieri con una necessità di controllo totale su su di essi, un eccessivo senso di responsabilità, perfezionismo, controllo sulle circostanze di vita, un’intollerabilità dell’ansia.

Bisogna però distinguere tra ossessioni, ossia pensieri che ritornano continuamente e in maniera tormentosa e compulsioni, ovvero impulsi volontari a compiere determinate azioni, col fine di placare, seppur momentaneamente, l’ansia generata dal contenuto delle ossessioni.

Per questo le ossessioni sono a livello mentale, mentre le compulsioni si traducono nell’atto pratico.
Ad esempio la compulsione di lavarsi più e più volte le mani può derivare dall’ossessione che si ha di contaminazione, di prendere ad esempio malattie infettive.

Vi sono vari tipi di ossessioni, da quelle di sporco e contaminazione, ossessioni numeriche (sui numeri, sulle date), ossessioni esistenziali (sulla vita, sulla morte), sessuali (stupro, omosessualità), religiose, dubitative, ossessioni collegate alla paura di arrecare danni agli altri.

Le compulsioni si traducono in rituali che possono essere di vario tipo, dai rituali di ordine e pulizia, di ripetizione e conteggio, di conservazione e accumulo a quelli di controllo (gas, luce) etc.

Le ossessioni e compulsioni causano disagio e interferiscono con il funzionamento lavorativo e/o scolastico e con le relazioni sociali. La persona riconosce che le proprie ossessioni sono inappropriate, tuttavia tende a ripeterle.

Tra le possibili cause vengono menzionate l’influenza di fattori ambientali, individuali e neurobiologici.
Anche la storia familiare della persona è importante. A tale proposito Selvini menziona tra le possibili cause del DOC “un bambino che si è caricato o è stato caricato da un eccesso di regole e rigida disciplina”.
Per questo oltre all’utilizzo di tecniche strategiche/comportamentali che agiscono sui processi mentali che sono responsabili del mantenimento del disturbo agendo sul qui ed ora, una psicoterapia ad orientamento familiare è importante nell’aiutare la persona a ripercorrere e rileggere il proprio vissuto, lavorando anche sul suo passato per comprendere le cause di possibili comportamenti.

I disturbi del Comportamento Alimentare

I disturbi alimentari sono essenzialmente disturbi della mente e quindi prima ancora che compaiano i segni fisici della malattia, sono già presenti da tempo quelli psicologici che in modo sotterraneo invadono le idee e i pensieri dei ragazzi.
Quindi il cambiamento fisico si accompagna e, a volte, viene preceduto da un grande cambiamento di carattere: instabilità emotiva, irritabilità, sbalzi del tono dell’umore, insonnia.
Tutti sintomi collegati alla malnutrizione ma in parte da ricondurre anche alla devastazione terribile che questi disturbi determinano nella mente di queste giovani vite.
Purtroppo l’attenzione all’alimentazione e l’eliminazione di alcuni alimenti, come pasta e dolci, è presente in moltissimi adolescenti e quindi non viene inizialmente compresa nella sua gravità.
Ma quando questa attenzione diventa continua, ossessiva e si accompagna al continuo osservarsi allo specchio e al continuo salire sulla bilancia ciò deve farci riflettere se non stia succedendo qualcosa.
Tenete conto che i Disturbi Alimentari sono diversi e l’inizio può essere molto subdolo e insidioso.
L’anoressia restrittiva si manifesta con l’eliminazione di alcuni alimenti cosiddetti fobici (pane, pasta, dolci, olio) ma anche con la riduzione delle porzioni, un’intensa attività fisica, la diminuzione delle attività sociali per evitare di essere costrette a mangiare.
L’anoressia si accompagna ad una grande fame e chi ne è affetto deve contrastare l’impulso a mangiare che è fortissimo; si cerca di tenere a bada i morsi della fame bevendo caffè, molta acqua, usando molte spezie, invece dei condimenti.
Nel caso dell’anoressia nervosa esistono un ampio numero di alterazioni dell’apparato cutaneo quali pelle molto secca e squamosa, sottile peluria che ricopre tutto il corpo, caduta dei capelli, acne, prurito, porpora, stomatite.
Nel caso della Bulimia il disturbo può passare inosservato ancora più a lungo, perché le pazienti ai pasti mangiano, anzi a volte si abbuffano, ma subito dopo si procurano il vomito.
In questo caso i sintomi psicologici sono più presenti e rilevanti: abuso di sostanze e di alcool, cleptomania, disturbi della condotta sessuale, disturbi del comportamento, gioco d’azzardo, shopping multicompulsivo.
Insomma uno scarso controllo degli impulsi con un cambiamento del carattere molto più evidente che nel caso dell’anoressia.
Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata infine è caratterizzato da grandi abbuffate senza vomito o metodi di compenso, con un conseguente aumento di peso da subito molto evidente; le abbuffate sono consumate quasi sempre di nascosto: frigoriferi svuotati e carte di biscotti e cioccolato sotto il letto possono essere i primi segnali, accompagnati da un disordine generale nella vita e da un abbassamento del tono dell’umore, da grande nervosismo e irritabilità.
L’abbuffata si innesca come un comportamento automatico, ma può ben conciliarsi anche con attività quali guardare la televisione, ascoltare musica, distrarsi e altre ancora, dove non sia necessario pensare.
I cibi che vengono prevalentemente ricercati durante questi episodi sono prevalentemente dolci o alimenti ad alto contenuto di grassi.
Anche i carboidrati sono presenti, ma non in proporzioni esorbitanti rispetto alla loro normale assunzione durante gli altri pasti.
In definitiva, vengono preferiti proprio quei cibi che la persona di solito non si concede perché li considera “pericolosi” dal punto di vista calorico.
E’ importante specificare che l’inizio del disturbo può essere di tipo anoressico, per poi facilmente evolvere verso un quadro di Bulimia o Disturbo da Alimentazione Incontrollata, ma c’è un filo conduttore di tutti e tre questi Disturbi ed è un’intensa, continua e martellante ideazione sul cibo e forme corporee.
A volte i Disturbi del Comportamento Alimentare si associano ad altri disturbi psichiatrici; è necessario tenerne conto perché possono condizionare negativamente il decorso della malattia in termini di tendenza alla cronicizzazione e maggior predisposizione alla resistenza al trattamento.
Ciò è valido anche per l’influenza negativa che il disturbo alimentare può avere sul disturbo psichiatrico, laddove uno stato di compromissione cognitiva correlato ad una condizione di denutrizione può complicare notevolmente il normale decorso delle malattie associate.
I disturbi psichiatrici più comunemente associati ai disturbi del comportamento alimentare sono i disturbi dell’umore, della personalità, disturbi d’ansia e disturbi legati all’uso di sostanze o alcool.
L’associazione tra disturbi alimentari e disturbi psicotici è molto rara e comunque più frequente per l’anoressia.
L’abuso di sostanze e di alcool e la dipendenza da sostanze sono molto frequenti soprattutto in coloro che effettuano abbuffate e ricorrono a condotte di eliminazione e quindi in casi di Bulimia e Disturbo da Alimentazione Incontrollata.

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Bibliografia

  • “Il vaso di Pandora. Guida per familiari, amici, insegnanti e pazienti con Disturbi del Comportamento Alimentare” a cura di Laura Dalla Ragione, Paola Bianchini e Chiara de Santis, Associazione Mi fido di te onlus.
  • “Maestra, ma Sara ha due mamme?” a cura di Alessandra Gigli, Edizioni Guerini, 2011.

Disturbo da Dismorfismo Corporeo

Secondo il DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), i criteri diagnostici del Disturbo da Dismorfismo Corporeo sono:

  • Preoccupazione per uno o più difetti percepiti nell’aspetto fisico, che non sono osservabili o appaiono agli altri in modo lieve
  • Comportamenti ripetitivi o azioni mentali in risposta a preoccupazioni legate all’aspetto
  • La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o in altre aree importanti
  • La preoccupazione legata all’aspetto non è meglio giustificata da preoccupazioni legate al grasso corporeo o al peso in un individuo i cui sintomi soddisfano i criteri diagnostici per un disturbo alimentare

È importante specificare, inoltre, se il disturbo si manifesta con Dismorfia Muscolare (APA, 2013), caratterizzato dalla preoccupazione cronica di avere una costituzione corporea troppo esile o insufficientemente muscolosa.
Nella dismorfofobia, la preoccupazione legata alla percezione di uno o più difetti fisici inesistenti o lievi determina un grave disagio e/o una compromissione delle attività quotidiane.

  • Ogni giorno, il soggetto passa ore a preoccuparsi dei presunti difetti, che possono interessare una qualsiasi parte del corpo.
  • Il medico pone una diagnosi di dismorfofobia quando le preoccupazioni estetiche provocano un grave stato ansioso o interferiscono con l’attività quotidiana.
  • Alcuni antidepressivi (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina oppure la clomipramina) e la psicoterapia sono spesso efficaci (associando anche interventi come la psicoeducazione, la ristrutturazione cognitiva, l’esposizione allo specchio, l’attivazione comportamentale).

Il soggetto dismorfofobico crede di avere una o più imperfezioni o difetti fisici, che in realtà sono inesistenti o lievi. Continua a fare determinate cose (come controllarsi allo specchio o confrontarsi a livello estetico con altri) perché è molto preoccupato delle presunte imperfezioni nel suo aspetto.
Il disturbo da dismorfismo corporeo di solito si manifesta nel corso dell’adolescenza ed è leggermente più comune tra le donne. Questo disturbo colpisce circa il 2-3% delle persone.

I sintomi del disturbo da dismorfismo corporeo possono svilupparsi gradualmente o improvvisamente, hanno intensità variabile e in assenza di trattamento tendono a persistere.
Le preoccupazioni interessano generalmente il volto o il capo, ma possono coinvolgere una o più parti del corpo e variare in base alla parte interessata.
Ad esempio, il soggetto può preoccuparsi per la percezione di un diradamento dei capelli, di presenza di acne, rughe o cicatrici, oppure del colore della pelle o di un’eccessiva peluria facciale o corporea.
Può inoltre focalizzare l’attenzione sulla forma o le dimensioni di una parte del corpo (naso, occhi, orecchie, bocca, seno, gambe o glutei).
Alcuni uomini con un fisico normale o addirittura atletico si reputano gracili e tentano in tutti i modi di aumentare il peso e la muscolatura, una condizione chiamata dismorfia muscolare.

Il soggetto dismorfofobico può descrivere le zone del corpo che non accetta come brutte, poco attraenti, deformate, ripugnanti o mostruose.
La maggior parte dei soggetti dismorfofobici non è consapevole di avere un aspetto effettivamente normale e ha difficoltà a tenere a bada le proprie preoccupazioni: ogni giorno passa ore a preoccuparsi dei suoi presunti difetti.
Il soggetto può credere che altri lo stiano osservando o prendendo in giro a causa del suo aspetto. La maggior parte dei soggetti dismorfofobici si esamina spesso allo specchio, mentre alcuni evitano di guardarsi e altri ancora oscillano tra questi due comportamenti.
Molti dismorfofobici effettuano un’eccessiva e compulsiva toelettatura, tendono ad escoriarsi (per rimuovere o sistemare i presunti difetti cutanei) e vogliono essere rassicurati sui presunti difetti.
Possono cambiare spesso indumenti per cercare di nascondere o camuffare il difetto inesistente o presente in forma lieve, o cercare di migliorare l’aspetto in altri modi.
Ad esempio, un soggetto può farsi crescere la barba per nascondere presunte cicatrici o indossare un cappello per coprire un lieve diradamento dei capelli. Per correggere il presunto difetto, la maggior parte dei dismorfofobici si sottopone, talvolta ripetutamente, a trattamenti medici di cosmesi (molto spesso dermatologici), nonché odontoiatrici o chirurgici. Questi interventi generalmente non sortiscono effetti e possono intensificare la preoccupazione.

Poiché il soggetto dismorfofobico è convinto di avere un problema estetico, talvolta evita di mostrarsi in pubblico, di recarsi a lavoro, a scuola e di partecipare alle attività sociali.
Alcuni di quelli che presentano sintomi gravi escono di casa solo di notte, mentre altri non escono affatto. Pertanto, questo disturbo spesso porta all’isolamento sociale.
Nei casi molto gravi, il disturbo di dismorfismo corporeo è invalidante. L’angoscia e le difficoltà associate a questo disturbo possono portare a depressione, a problemi di uso di alcol o sostanze, a ripetuti ricoveri, a un comportamento suicidario e al suicidio.
Nel corso della vita, circa l’80% dei soggetti con disturbo di dismorfismo corporeo manifesta ideazione suicidaria e da un quarto a quasi il 30% tenta il suicidio.
Molti soggetti con disturbo di dismorfismo corporeo soffrono anche di altre malattie mentali, come il disturbo depressivo maggiore, il disturbo da uso di sostanze, il disturbo d’ansia sociale o il disturbo ossessivo-compulsivo.

Nelle concettualizzazioni del BDD (Body Dysmorphic Disorder) , il ruolo della vergogna risulta centrale sia nello sviluppo che nel mantenimento del disturbo.
Veale e Gilbert (2014) hanno proposto che la vergogna guidi i comportamenti problematici, come il controllo e il camuffamento estetico, il confronto di sé con gli altri e l’evitamento sociale.
La vergogna contribuisce quindi in modo significativo all’aumento generale dei sintomi e delle conseguenze psicosociali negative comunemente associate, come funzionamento limitato, depressione e pensieri suicidari (Weingarden et al., 2016, 2017).
La vergogna si riferisce all’esperienza emotiva di percepire il sé come intrinsecamente difettoso e socialmente indesiderabile (Lewis, 1971).
Implica l’autocritica, comprese le autovalutazioni negative per difetti percepiti o carenze, con il conseguente bisogno di “scomparire” o nascondersi.
Considerando gli alti tassi di esiti psicosociali avversi tra le persone con BDD, questi risultati suggeriscono che la vergogna possa effettivamente essere un obiettivo importante nel trattamento del Disturbo da Dismorfismo Corporeo.
La letteratura non fornisce indicazioni univoche circa l’eziologia del Disturbo da Dimorfismo Corporeo, tuttavia, nel DSM-5, i fattori ambientali come alti tassi di trascuratezza e abusi durante l’infanzia sono contemplati come fattori di rischio che potrebbero facilitare l’insorgenza del disturbo (APA, 2013).
Inoltre, si evidenzia una maggiore predisposizione per i bambini di genitori con Disturbo Ossessivo Compulsivo di sviluppare la Dismorfofobia (APA, 2013).

Lettera alla tua famiglia

Dott.ssa Alice Nucci

Carissimo,
sento un forte desiderio di rivolgermi alla tua famiglia che, pur essendo formata da più individui e tutti con la propria specifica e ben distinta personalità, è al tempo stesso un’unità inscindibile.
Come un trio per archi o un quartetto, un ensemble musicale, in cui il violino, la viola da gamba e il violoncello hanno ciascuno capacità espressive tonali e melodiche proprie, ma la sonata emerge dall’insieme di tutti gli strumenti.
Mi sembra questa una buona metafora della famiglia, un insieme in cui le capacità del singolo, e quindi la sua personalità irripetibile, sono fondamentali, ma devono contribuire alla riuscita di un risultato comune.
Penso al contrappunto, a quando due strumenti entrano in una vera comunicazione e le note si susseguono in un dialogo serrato: la bellezza è il dialogo, non i pezzi melodici serrati di ciascuno strumento.
Se suonano insieme, danno sensazioni musicali piacevoli, separatamente fanno pensare a qualche cosa di incompleto, di rotto.
Ed ecco il primo messaggio: nessuno può essere escluso dalla famiglia di cui è parte.
La famiglia è il luogo dei sentimenti, il risultato risiede nello stare bene insieme, in particolare nel luogo fisico della famiglia, la casa.
La casa è particolarmente importante. Lo è per me, per tutti noi italiani che la desideriamo e la curiamo fino a imprimervi uno stile di famiglia.
Ognuno di noi esercita un compito proprio fuori casa, legato alle caratteristiche di ciascuno, alla propria professione, ma quando i solisti rientrano, l’ensemble si ordina per una sonata di famiglia, e abbiamo fatto cose straordinarie.
Straordinarie anche se solcate talora dal dolore, tra il dispiacere, le difficoltà, le incomprensioni.
Molte volte ho sentito la famiglia come un vincolo insopportabile, talora mi è sembrato di non essere capito e di venire criticato, come se io fossi inadeguato. Momenti in cui la famiglia mi è apparsa un inferno nemico, con la sensazione di aver sbagliato tutto.
Ma da trentasette anni faccio parte dell’organico e ora so che una famiglia cambia, che ha capacità di rinnovarsi, di ricrearsi.
Non saprei vivere senza questa famiglia, non perchè sia legato da una dipendenza, dall’incapacità a un’esistenza solitaria, ma perchè sto bene, perchè qui trovo la forza di vivere dentro il mondo, di andare verso il mondo sapendo e pensando sempre al mio punto di riferimento. La famiglia non mi toglie la libertà di agire da singolo, ma mi dà la forza di farlo.
Insomma sono parte di una famiglia che non è né perfetta, né un esempio di romanticismo poetico, ma ha retto ed è rimasta, tra qualche scossone e seguendo l’andamento da alta a bassa marea, il luogo dei sentimenti.
Chi pensa che l’affetto sia uno status continuo o che si spenga in funzione dell’età, sbaglia.
Se pensate che una famiglia vecchia abbia consumato gli affetti e sia chiusa dentro le coordinate del minimalismo, vi ingannate.
Se pensate che il gusto della relazione totale, che certo mescola anche i corpi, sia una proprietà esclusiva della giovinezza, siete in errore. Se credete che, diminuendo il vigore delle passioni, si è fuori dall’amore, prendete un grande abbaglio.
Le relazioni affettive sono sempre nuove per totalità, per eleganza, per l’accumulo dell’esperienza passata: un racconto musicale barocco, non privo di improvvisazioni e di qualche resurrezione. Oltre il tempo: una durée che parla di infinito.
Voglio ora riempire i fogli da lettera che mi rimangono con le mie riflessioni su ciascuno dei ruoli che appartengono alla famiglia.
Dopo aver composto una sonata, occorre farne una trascrizione per strumenti e dunque comporre lo spartito.

La madre

Cara signora,
il pericolo che corri è di dedicarti completamente alla famiglia, di considerare che non c’è altro al di fuori di questo piccolo mondo e, quindi, di assumere tutto il significato al suo interno e di perderlo completamente quando ne sei fuori.
La madre deve svolgere al meglio possibile la funzione familiare, e in alcuni momenti l’impegno è enorme, ma non può ridursi ad esso e quindi deve poter coltivare e promuovere un senso fuori della famiglia.
Non rinunciare mai ad esercitare il ruolo, ma non accattare mai di esercitare solo quello.
Dunque non rinunciare mai a svolgere bene il ruolo di madre, ma non dimenticare che rimane, per lo più, il tempo per fare altro.
Se metti al mondo un bambino, e io ti auguro di fare questa esperienza eccezionale, sappi che per i primi tre anni dovrai vivere in gran parte per lui.
Tra zero e tre anni si compie nel bambino il processo di separazione – individuazione che è uno dei punti essenziali della crescita, poiché è con il compimento di questo processo che un bambino si percepisce come un’unità staccata e in grado di raggiungere un primo livello di autonomia, nel senso di potersi relazionare con gli altri.
Non ti sembri troppo scontata questa affermazione e pensa che alla nascita il bambino non si distingue come qualche cosa di separato da te e quindi deve procedere verso l’acquisizione di una diversità che sorge solo se si confronta continuamente con persone stabili, e la madre gli serve per distinguersi da lei e se cambia come in un caleidoscopio, lui non riesce a percepire un che di stabile su cui confrontare la propria individuazione, una individuazione che avviene proprio attraverso la separazione.
Ora permettimi di fare un salto e raggiungere la pubertà, quando per tuo figlio o tua figlia comincia la metamorfosi del corpo, ma anche della personalità e della sensibilità sociale.
Anche qui c’è la ricerca di un ulteriore livello di autonomia, questa volta non nell’acquisizione di un Sè che sappia relazionarsi con altri, ma un’autonomia psicologica della famiglia per poter uscire e sperimentare le relazioni sociali, non più sotto l’ombrello e la guida di mamma e papà.
Ebbene, in questo momento il pericolo per una madre è di voler esserci a tutti i costi, di voler imporsi, di controllare eccessivamente il bisogno, anche di avventura che l’adolescente cerca.
In questa fase è positivo che te ne stia anche lontana, senza rancori certo, e senza rispondere violentemente alle provocazioni che gli adolescenti mandano contro la famiglia nel suo insieme.
Ecco un momento in cui ti puoi dedicare di più a una dimensione fuori dalla famiglia, a meno di non avere altri figli che ora abbiano un’età che richiede l’impegno già superato dal primo.
Insomma, il ruolo di madre ha periodi di diversa attività e guai a non esserci quando occorre, mentre non serve o serve starne lontano, in età differenti. E ciò, ovviamente, non vuol dire abbandono, ma una presenza da lontano, una presenza che si riallaccia nel racconto e nell’ascolto della vita del figlio vissuta fuori casa, e che tende a diventare anche segreta.

Il padre

Carissimo padre,
rivolgendomi a te mi pare di scrivere a uno che non c’è, a un padre mancato, non so colpevolizzarti perchè ti voglio bene, perchè soffri e risenti del tempo presente, in cui l’uomo si muove senza sapere perchè, oberato dagli stimoli del momento e con la paura che la batteria si scarichi.
Se mi permetti un consiglio, per ritrovarti cerca di fare il padre e il marito, scoprirai la bellezza di avere un senso e la grandezza dell’affettività e del valore dei sentimenti.
Porta a casa meno roba, meno simboli e portati a casa tu, perchè i figli hanno bisogno di te e così tua moglie, e scoprendo che sei essenziale per loro avrai la dimensione anche di te stesso e allora potrai esistere senza faticare per l’inutile, per ricoprirti di cose che ti diano un senso. In quel modo non solo non lo ottieni, ma ti perdi sempre di più. Fermati, “perditi per finalmente ritrovarti”.

I figli

Cari figli,
lo sapete bene di essere la parte centrale della vita della famiglia e che lo sguardo di tutti è rivolto a voi. Ebbene, vi prego, non ritenete di avere soltanto diritti. Non è vero che, poiché siete il fine, l’oggetto dell’educazione, dovete ricevere e non dare mai, e protestare e lamentarvi degli educatori e del clima in cui si svolge la relazione educativa.
Non limitatevi al lamento, anche se a ragione, senza fare il minimo sforzo per capire cosa è successo e senza nemmeno porvi il problema di un possibile aiuto da dare a vostra madre o a vostro padre.
Mi meraviglio che non facciate nulla per facilitarli in questo compito, perchè non si tratta di due robot che non possono andare mai in crisi e allora, se volete un’attenzione adeguata, aiutateli.
Suggerimento in perfetta sintonia con la certezza che l’educazione non è un processo a una sola direzione. Con ciò non sostengo affatto che si debbano scambiare i ruoli, sono ben lontano dal pensarlo; affermo con decisione che se i padri e le madri non sono motivati, fanno maggiore fatica a svolgere il loro ruolo e su questo tasto voi avete una grandissima capacità per incidere.
Fatelo e cercate poi di evitare i tono aggressivi che, se hanno bisogno di esser capiti e talora tradotti nel loro significato, demotivano e fanno sentire a padri o madri di essere inadeguati.
Insomma, l’educazione va da loro a voi con ritorni che siano di sostegno, di correzione reciproca e di rinforzo per continuare. Continuare un’esistenza assieme sentendo gratificazione, gioia di vivere, di vivere con loro anche se non sono perfetti.

Queste sono alcune considerazioni sulla famiglia, tratte dal libro “Lettera alla tua famiglia” di Vittorino Andreoli, Ed. Rizzoli, 2006.
Ho riportato una minima parte dei contenuti della lettera, sperando di suscitare nella mente di chi la legge riflessioni sulla propria famiglia, riflessioni che possono portare all’ identificazione nei ruoli e/o contenuti citati o a considerazioni su dinamiche relazionali diverse e/o opposte.
L’autore del libro ha sottolineato l’importanza del dialogo nella famiglia, un dialogo intrinseco di sentimenti talora contrastanti.
Talvolta anche il “non detto” assume una valenza comunicativa altrettanto forte di ciò viene esplicitato a parole.

 

Dott.ssa Alice Nucci

Sessualità e impotenza

In quale periodo dell’evoluzione sessuale abbia avuto luogo la nascita della coppia non è dato sapere, ma i paleontologi ritengono che la collaborazione di vita fra l’uomo e la donna abbia avuto inizio proprio nelle popolazioni presso le quali gli aspetti genitali e cerebrali dell’attività sessuale erano tali da indurre le coppie a restare unite almeno per il tempo necessario ad allevare la prole e a costituire una famiglia. E questa operazione vitale non poteva essere raggiunta senza l’uso di un linguaggio.
Alla base della coppia c’è l’attrazione dei sessi, potente, fondamentale, che ha come fine biologico la perpetuazione della specie. Ma non solo, visto che la sessualità umana non è essenzialmente “genitale” ma anche psicologica.

Continuando a parlare di sessualità, riteniamo affetto da eiaculazione precoce l’uomo che lamenta la comparsa dell’eiaculazione dopo una breve eccitazione, se invece manca di erezione ha una impotenza e quando una donna dichiara di non provare l’orgasmo ha un’anorgasmia. Eiaculazione precoce, impotenza, eiaculazione assente o ritardata ecc. sono considerate nella letteratura specialistica e spesso nella pratica clinica malattie. Così facendo, da un punto di vista terminologico, si ricorre a criteri empirici e prescientifici come quando in medicina si identificava il sintomo più evidente per assegnare un nome alla malattia e da un punto di vista descrittivo si definisce la malattia del medico e non quella dell’ammalato.
La malattia è da intendere come una condizione o status che interessa tutta la persona nella sua globalità psico-fisico-relazionale. La malattia dunque non è semplicemente un sintomo o un insieme di sintomi, ma un particolare modo di essere nel mondo, una nuova dimensione della vita che nasce dalla rottura degli equilibri psicofisiologici capaci di mantenere la persona in uno stato di salute. Eiaculazione precoce come impotenza, anorgasmia ecc. sono sintomi e non malattie.
Così, curare l’impotenza erettile come se si trattasse semplicemente della compromissione dell’evento vascolare che permette la penetrazione vaginale, significa ignorare le componenti emotivo-affettive e relazionali che accompagnano quella compromissione e che nel loro insieme accompagnano lo stato di malattia.
Il termine impotenza comprende tutte le alterazioni della risposta sessuale che assumono significatività per la costituzione dell’essere uomo o donna, si riconoscono quindi un’impotenza sessuale maschile e femminile.

Impotenza sessuale maschile: Incapacità di essere uomo, incapacità che può nascere dalla reale o presunta compromissione di una, alcune o tutte le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali che caratterizzano la virilità in un determinato contesto socioculturale.
Impotenza sessuale femminile: Incapacità di essere donna, incapacità che può nascere dalla reale o presunta compromissione di una, alcune o tutte le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali che caratterizzano la femminilità in un determinato contesto socioculturale.

Le definizioni sono sovrapponibili e accomunate dal vissuto di inadeguatezza che le caratterizza.
In esse figurano alcune affermazioni che è bene esplicitare.

  1. Reale o presunta compromissione. Non tutti i sintomi che i pazienti segnalano e che rappresentano per loro l’occasione per elaborare un vissuto di inadeguatezza, corrispondono ad una reale compromissione. Alcuni fanno riferimento ad eventi propri della fisiologia che il paziente interpreta erroneamente come manifestazione di insufficienza strutturando uno stato di malattia assolutamente privo di contesto fisiopatologico (malato senza malattia). La perdita dell’erezione dopo svariati tentativi di introduzione resa impossibile dal fatto che la partner reagisce involontariamente con una contrazione spastica della muscolatura dell’ostio vaginale (vaginismo) può essere erroneamente intesa come una compromissione della funzione erettile e sostenere quindi un vissuto d’impotenza.
  2. Tutte le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali. Con questa espressione si fa riferimento a quelle componenti della mascolinità o femminilità che caratterizzano l’incontro sessuale e la cui compromissione viene riferita come sintomo. Tali variabili possono essere di ordine:
    • anatomo-patologico (malformazioni, mutilazioni traumatiche o chirurgiche, patologie organiche);
    • fisiologico (erezione, eiaculazione e orgasmo per l’uomo);
    • psicologico (desiderio del rapporto e della coabitazione vaginale, soddisfazione);
    • comportamentale (corteggiamento, conquista, frequenza, durata, abilità erotiche.
  3. In un determinato contesto socioculturale. Ciascuna cultura produce le sue malattie. Le variabili anatomo-fisiologiche e psicologico-comportamentali assumono rilevanza nel definire la sessualità maschile e femminile solo in rapporto ai significati che la cultura attribuisce loro.

Elencherò qui di seguito di altri tipi di impotenza: organica, psichica, mista e impotenza di coppia.

Impotenze organiche

Le impotenze organiche sono sostenute dalla compromissione dello stato generale di sanità e/o dal danno anatomo funzionale di natura morfologica, chirurgica, degenerativa, neoplastica o tossica che colpisce un organo o un apparato. Tale compromissione può impedire totalmente o parzialmente, ma sempre in maniera prevalente rispetto alle concomitanti cause psicologiche, una, alcune o tutte le funzioni che costituiscono la fisiologia della risposta sessuale.
I fattori organici possono influire negativamente sulla risposta sessuale in maniera diversa.

Impotenza psichica

L’impotenza psichica è sostenuta dalle componenti psicologiche intrapersonali e/o relazionali che impediscono lo svolgersi della risposta sessuale le quali, pur dominando sempre il quadro patologico rispetto a concomitanti affezioni organiche, possono assumere un ruolo favorente, determinante, scatenante, di mantenimento o aggravante.
Fattori favorenti. Da un punto di vista intrapersonale possono agire come favorenti la disinformazione sessuale e/o le false conoscenze, l’adesione alle mode o ai miti socialmente costruiti (il maschio superdotato, la femmina pluriorgasmica), le condizioni dell’umore (depressione), una generica insicurezza, l’essere tendenzialmente ansiosi, una storia psicoevolutiva caratterizzata dalla difficoltà a fruire serenamente del piacere (educazione repressa) oppure dall’incerta costruzione dell’identità sessuale o dalla facilità a vivere sensi di colpa. Ha funzione favorente anche la qualità della relazione per la perdita delle potenzialità deduttive, la presenza di malattie fisiche o disturbi psicologici che limitano la disponibilità dell’altro, le modeste e transitorie crisi coniugali.

Impotenze miste

Le impotenze miste sono determinate dalla possibile concomitanza dei fattori organici con quelli psicologici o di quelli intrapersonali con le cause relazionali.

Impotenza sessuale di coppia

L’impotenza sessuale di coppia viene definita come l’incapacità della coppia di avere una soddisfacente vita sessuale per la compromissione della risposta sessuale che può colpire uno, l’altro o entrambi i partner, causata da una struttura relazionale patogena. Anche questa definizione si fonda sulla considerazione del vissuto, seppure non con la stessa frequenza rilevata per l’impotenza individuale, i pazienti usano un linguaggio che può avere significato diagnostico. I membri della coppia che vive un matrimonio bianco usano espressioni come “Non siamo capaci di avere rapporti” oppure “Non siamo una coppia come si deve” o anche “Per noi la sessualità è un problema”; nei casi in cui è la reciproca aggressività a sostenere i disturbi, i segni verbali sono caratterizzati da una precisa formulazione accusatoria: “Mia moglie mi ha spinto a venire perché dice che sono impotente” o “Sono venuto solo per accompagnarla perché è lei che si deve far curare” e infine da parte dell’accusato “Si è vero non abbiamo rapporti, mi spiace, ma non so cosa farci”. Generalmente mancano sensazioni soggettive di incapacità da parte del portatore del sintomo, mostrando di avere l’inconsapevole percezione che il sintomo esprime la compromissione di qualcosa di diverso dalla sua persona. Nel rivolgere l’attenzione anche alla coppia, l’indagine clinica si è arricchita: la rilevazione delle impotenze di coppia è stata pressoché contemporanea ad una diversa sensibilità culturale rispetto ai temi del comunicare e del relazionare che ha interessato il pensiero collettivo e scientifico. Così, per esempio, dagli anni ’70 le persone hanno incominciato a presentarsi in coppia e oggi avviene sempre più di frequente, mentre chi si reca alla consultazione da solo è più disponibile a coinvolgere il partner il quale, a sua volta, raramente oppone resistenze. Ciò non significa che la richiesta comune dei partner sia il segno di un’impotenza di coppia, ma è di certo un richiamo a considerare il loro essere assieme e non solo la sofferenza di uno dei due.

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Bibliografia

  • Rifelli G. (1998), Psicologia e psicopatologia della sessualità. Il Mulino, Bologna.
  • Rifelli G., Moro P. (1989), Sessuologia clinica. Vol 1: Sessuologia generale. CLUEB Editore, Bologna.
  • Rifelli G., Moro P. (1989), Sessuologia clinica. Vol 2: Impotenza sessuale maschile, femminile e di coppia. CLUEB Editore, Bologna.
  • Andolfi M. (2003), La crisi della coppia. Una prospettiva sistemico – relazionale. Raffaello Cortina Editore, Milano.

Quante coppie

In questo articolo riporterò alcune tipologie di coppie disfunzionali, traendo spunto dal libro di Willy Pasini “A che cosa serve la coppia”.
Le tipologie di coppie sono svariate e questo non vuole essere di certo un articolo per ridurre la coppia a delle semplici “etichette”, ma viene scritto sempre con la consapevolezza di poter dare spunti di riflessione a chi lo legge.

Pasini parla di Amore come possesso reciproco.
In queste coppie il piacere di controllare si trasforma in gusto del potere e in conflitti il cui unico obiettivo è non darla vinta all’altro.
Ogni pretesto è buono. L’attività del partner o il suo essere passivo. La sua autonomia o la sua dipendenza. L’ostinazione o l’arrendevolezza, l’amore dell’ordine o la trasandatezza.
In tali coppie, il partner dominante assume di solito atteggiamenti dispotici.
Non solo pretende fedeltà assoluta, ma vorrebbe pure che questa fosse una decisione spontanea dell’altro: insomma ambisce al controllo non solo dei comportamenti, ma anche della mente dell’altro.
Il partner passivo sopporta tutto, ben contento di poter delegare all’altro tutte le decisioni e di vivere sotto la sua protezione. Si tratta però di un meccanismo di potere: la resistenza passiva è solo il modo migliore per dominare il compagno, lasciandosi apparentemente dominare.
In situazioni di ordinaria quotidianità, basta poco per dare inizio all’escalation del litigio.
Lui, per esempio, sarebbe disponibile a preparare la colazione ogni tanto, ma non sopporta che sia la moglie a ordinarglielo.
Dominare per non essere dominati è il pensiero fisso di queste coppie, in cui nessuno prende l’iniziativa perché teme che l’altro possa interpretare il suo approccio come un segno di debolezza e sfruttarlo per avanzare pretese.

Continua parlando di Amore come nutrimento reciproco.
Immaginiamo i partner come madre e figlio: l’una deve continuamente accudire l’altro nei suoi inesauribili bisogni.
Lei trae piacere dal ritorno alla calma del bimbo dopo la poppata, lui dal nutrimento che riceve.
All’interno di questa coppia recita la parte del poppante chi non riesce ad identificarsi nel ruolo materno perché troppe sono le frustrazioni che ha vissuto con la sua vera madre: le funzioni materne che vengono rifiutate sono trasferite sul partner, che deve quindi corrispondere a un’immagine ideale di madre gratificante.

Vi è poi l’Amore inteso come dovere.
Generalmente in queste coppie i due si incontrano per infelicità.
La donna cerca aiuto, secondo un copione che si ripete sempre uguale. L’uomo è stato convinto dalla famiglia a mettere la testa a posto. Lei non è innamorata, ma si sposa pensando che prima o poi arriverà anche l’amore. Lui aspira solo a consolarla, attività che lo condanna a un continuo senso di frustrazione perché, nonostante tutti i suoi tentativi, la compagna non riemerge dal suo stato di insoddisfazione cronica. Quando però è lui che chiede aiuto, perché si è ammalato oppure a causa di difficoltà professionali, lei lo respinge: non vuole e non può dedicare al marito alcuna attenzione materna.

Pasini parla anche di Amore come fusione, parlando di coppia narcisistica.
Dirà di narcisisti è pieno il mondo, li riconosci perché fin dal primo incontro ti fanno sapere tutto di loro, i narcisisti dipendono dall’ammirazione altrui ed è per questo che amano circondarsi di persone la cui unica funzione è riflettere l’immagine di sé come protagonisti.
I narcisisti non riescono a concepire l’altro come individuo autonomo, ma solo come veicolo per un’ulteriore conferma del proprio sé.
Lascio immaginare i risvolti che questo può comportare in una coppia nella quale dall’Io si passa al Noi.

E voi vi siete ritrovati in qualche coppia descritta? Se non vi siete rivisti, come definireste la vostra coppia?
Vi rimando a questi altri articoli dove potrete trovare ulteriori spunti di riflessione Le disfunzioni sessuali nella dinamica di coppia e La coppia diventa famiglia.

Dott.ssa Alice Nucci

L’ipocondriaco, il malato immaginario

Il pensiero è diventato nell’essere umano una formidabile arma di controllo dell’ambiente per mezzo della quale egli si è impadronito del pianeta, perché mediante il pensiero l’essere umano è diventato capace di risolvere i problemi ambientali.
Le azioni simulate dal pensiero, infatti, possono essere non soltanto semplicemente consolatorie nei confronti di condizioni ambientali negative, ma anche atte a eliminare quelle stesse condizioni ambientali negative che hanno attivato il pensiero e che costituiscono un problema.
Se sei chiuso in una trappola, il pensiero può aiutarti ad uscirne.
Questo è diventato il pensiero nell’essere umano: un sistema di problem solving, un sistema capace di risolvere i problemi ambientali attraverso la simulazione delle azioni atte alla loro soluzione.
A patto però che le azioni pensate vengano attuate, cioè che le azioni da simulate divengano reali e quindi che il pensiero dia luogo all’azione: questa elimina le condizioni ambientali negative e scarica la tensione ristabilendo l’equilibrio omeostatico, cioè lo stato di benessere.
Il pensiero che dà luogo all’azione capace di eliminare le condizioni ambientali negative assolve dunque pienamente alla sua funzione di difesa dalle aggressioni ambientali.
Ma esso è un pensiero attinente alla realtà.
Ma quante volte tu traduci il tuo pensiero in azione? Quante volte tu usi il tuo pensiero per risolvere problemi reali utilizzando la sua funzione più evoluta?
Quante volte invece ti immagini azioni che non sei stato o non sei in grado di compiere?
Quante volte utilizzi la funzione più primitiva del pensiero semplicemente per contenere la tensione generata dai problemi reali non risolti con l’azione?
Tu puoi facilmente constatare che la maggior parte del tuo pensiero è rivolto ad assolvere la sua funzione primitiva di contenimento della tensione simulando azioni immaginarie sostitutive delle azioni reali non compiute, piuttosto che a risolvere, con l’azione reale, problemi reali.
E che dire di quando l’azione simulata dal tuo pensiero non può essere attuata o di quando non è in grado di eliminare le aggressioni ambientali neppure sul piano dell’immaginazione?
In questi casi la tua tensione non soltanto non diminuisce, ma addirittura aumenta, in quanto il diminuire della tua capacità di difesa aumenta il grado di pericolosità da te attribuito alle aggressioni ambientali e quindi la tua reazione tensiva, ossia la tua sofferenza.
Da sistema di difesa della tensione, il pensiero si trasforma in questo caso in un sistema di incremento della tensione, cioè della sofferenza, e quindi in un processo autolesivo.
Il pensiero che genera sofferenza è una sega mentale malefica.
Il massimo della sega mentale malefica si ha quando il problema alla cui soluzione si applica il tuo pensiero non è un problema reale, ma soltanto un problema inventato dal tuo stesso pensiero, cioè un problema immaginario.
Come può avvenire che il pensiero, inventato per risolvere o alleviare i problemi reali, diventi invece il creatore di problemi immaginari?
In realtà il problema immaginario non può essere risolto.
Infatti non esiste soluzione reale del problema immaginario per il semplice fatto che il problema immaginario non è reale.
La tensione causata da un problema immaginario, quindi, non può essere eliminata.
Anzi lo stesso problema immaginario diventa fonte di tensione.
Da sistema di difesa della tensione, il pensiero si trasforma quindi, nel caso di problemi immaginari, in un sistema di incremento della tensione e quindi in un processo autolesivo che si protrae nel tempo e si accresce indefinitamente in quanto si autoalimenta.
Tutto questo si rispecchia nella definizione di nevrosi ipocondriaca.
Il paziente ipocondriaco è colui che continua a male interpretare alcune sensazioni corporee nonostante abbia ricevuto rassicurazioni mediche pertinenti, valide e ben fondate e nonostante abbia le capacità intellettive per poter compiere le inferenze opportune da tali informazioni ed è proprio per questo che l’ipocondriaco viene anche definito “malato immaginario”.
In questi casi l’intervento di uno psicoterapeuta preparato può aiutare in quanto l’illusione di non avere bisogno di un aiuto esterno fa parte del quadro nevrotico, divenuto, assetto autolesivo.
Mi piace concludere l’articolo riportando alcune citazioni simpatiche dell’autore:
“Ma allora, mi dirai, bisogna smettere di pensare? Ebbene, ti devo confessare che non sarebbe male, smettere di pensare, e ti devo anche confidare che è bellissimo.
Tuttavia è sufficiente usare il pensiero soltanto in quelle poche occasioni in cui serve davvero a salvarci e a stare meglio: non poi così spesso come si crede”.

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Riferimenti bibliografici

  • “Come smettere di farsi le seghe mentali e godersi la vita”, di Giulio Cesare Giacobbe, Casa Editrice Ponte alle Grazie, 2004.

Burn-out

La sindrome del Burn–out, definita una perdita progressiva di idealismo, energia, motivazione, interesse, vissuta dagli operatori come risultato delle condizioni del loro lavoro, ė caratterizzata da esaurimento fisico, sentimenti di impotenza e disperazione, sensazione di vuoto emotivo e dallo svilupparsi di un concetto di sé e atteggiamenti – verso il lavoro, la vita e gli altri – negativi.
Essa può presentarsi in qualunque contesto lavorativo stressante, ma ė più frequente nei mestieri che richiedono impegno emotivo e in cui si è costantemente in rapporto con le persone e i loro problemi, spesso non del tutto risolvibili con gli strumenti e le competenze professionali.

Il burn–out, che può essere considerato come la reazione a una serie di tentativi falliti di far fronte a condizioni ambientali negative, ė una risposta di disimpegno e chiusura di fronte a stimoli stressanti eccessivi e accumulati.
Nelle professioni legate all’assistenza si sviluppa in tre stadi: dapprima l’operatore individua uno squilibrio fra richieste degli utenti e risorse disponibili, tra i fini che si pone e i mezzi della propria organizzazione; poi avverte stanchezza, fatica psicologica, frequente irritabilità, demotivazione; infine sviluppa atteggiamenti di rigidità, cinismo o distacco emotivo e tende a trattare gli utenti in modo meccanico e impersonale.

Tale sindrome è quindi conseguenza dello stress ed ė innescata contemporaneamente da fattori individuali, organizzativi e sociali.
Il conflitto tra bisogni di affermazione dell’io e paura delle possibili conseguenze sociali negative della proclamata diversità da un lato (solitudine), e quello tra desideri di appartenenza a un “noi” (coppia, famiglia, organizzazione lavorativa) e timore di essere soffocati, di perdere la propria identità, di diventare come tutti gli altri, di essere costretti a conformarsi ecc, dall’ altro lato, sono problemi esistenziali che hanno tormentato gli esseri umani probabilmente dai tempi delle prime aggregazioni sociali.

Quando la persona si accorge che questi sintomi le creano disagio a tal punto da non riuscire a presenziare al lavoro o rapportarsi con i colleghi, percependo la propria immagine come inadeguata e negativa, ė bene che richieda l’aiuto necessario per superare questo momento di difficoltà.

Invito alla lettura degli articoli Alcuni cenni sulla depressione e Mobbing e stress lavoro-correlato che possono dare ulteriori spunti di riflessione.

Il burn out è un vero e proprio esaurimento emotivo di cui la vittima è il lavoratore, di fatto è una forma cronica di stress lavoro correlato che si presenta con un crescente senso di distacco dalle attività nelle quali il lavoratore è coinvolto.