Disturbi fobici, alcune definizioni diagnostiche tratte dal DSM IV-TR e DSM-5

Disturbi fobici – Gruppo di sindromi (o disturbi) in cui l’ansia è evocata esclusivamente, o prevalentemente, da alcune specifiche situazioni o oggetti esterni non abitualmente pericolosi.
Tali situazioni od oggetti vengono evitati in modo caratteristico o tollerati con paura.
L’ansia fobica è indistinguibile sul piano soggettivo, fisiologico e comportamentale da altre forme di ansia e può variare in gravità da un lieve disagio al terrore.
E’ sufficiente che si consideri la possibilità di entrare nella situazione fobica per generare un’ansia anticipatoria.

Tra i disturbi fobici troviamo la fobia sociale, fobie specifiche, agorafobia con o senza attacchi di panico.

Agorafobia.

Ansia che insorge in almeno due delle seguenti situazioni: folla, luoghi pubblici, viaggiare lontano da casa o da solo.

I soggetti possono evitare o ridurre le attività a causa della paura.
Possono avere difficoltà a raggiungere lo studio del medico, ad uscire per gli acquisti, a fare visita ad altri.
Presentano sintomi fisici (palpitazioni, fame d’aria, asma).
Può essere complicata da attacchi di panico.

Fobie specifiche.

Paura spropositata rispetto alle comuni paure, che si manifesta in modo marcato e persistente in presenza di un oggetto o in relazione a specifiche relazioni (Cole & Wilkins, 2013).

Esistono diverse tipologie di fobie, differenziate in base al tipo di stimolo fobico:

  •  Animale (cani, ragni e/o insetti);
  • Ambiente naturale (come le altezze, i temporali o l’acqua);
  • Sangue-iniezioni-ferite (comuni sono le paure rispetto agli aghi o relative ad alcune procedure mediche invasive);
  • Situazionale (ad esempio gli aerei, gli ascensori o i luoghi chiusi);
  • Altro (tutti gli stimoli in grado di generare fobie).

Fobia sociale.

Ansia che insorge come paura del giudizio di altre persone in situazioni sociali come: parlare in pubblico, mangiare in presenza di altri, incontri con il sesso opposto.

Il confronto diretto dello sguardo è particolarmente stressante, in genere è associata ad una bassa stima di sé.
Può manifestarsi come lamentele relative all’arrossire, al tremore alle mani, alla nausea, all’urgenza di urinare, al timore di vomitare.
L’evitamento, spesso marcato, può produrre un isolamento sociale.
L’individuo teme di agire in modo umiliante o imbarazzante (nei bambini con i coetanei).
La persona riconosce che la paura è irragionevole o eccessiva.
Tutto ciò genera evitamento, che interferisce con le abitudini normali della persona.

Un altro disturbo meno ricordato ma comunque diffuso è la fobia scolare.
Il termine “fobia scolare” viene comunemente utilizzato per descrivere una sindrome nella quale il sintomo preponderante è una forte paura o angoscia legata all’idea andare a scuola. Il forte disagio emotivo percepito dal bambino è spesso associato a manifestazioni comportamentali, cognitive, e fisiologiche.
Le conseguenze possono riguardare lo sviluppo emotivo, sociale, le acquisizioni scolastiche, difficoltà nei rapporti con la famiglia.
La fobia scolare non va confusa con l’assenza ingiustificata da scuola, quest’ultimo è un comportamento in cui è assente l’ansia e la paura eccessiva di frequentare la scuola e spesso è associato a comportamenti antisociali e alla mancanza di interesse per la propria formazione scolastica.

Il disturbo si caratterizza per

  • elevata reazione di ansia nel momento in cui esce da casa o giunge davanti alla scuola, al punto da presentare sintomi da panico;
  • manifestazione di un ampia serie di sintomi somatici (vertigini, mal di testa, tremori, palpitazioni, dolori al torace, dolori addominali, nausea, vomito, diarrea, dolori alle spalle, dolori agli arti);
  • il livello di angoscia può essere elevato fin dalla sera prima e il bambino può riposare male, il sonno può essere disturbato da incubi o risvegli notturni.

Le persone sono consapevoli della sproporzione e dell’irragionevolezza della propria paura, che sembra però percepita come pericolosa, intollerabile e incontrollabile.

Le uniche soluzioni che sembrano aiutare, sul momento, le persone a fronteggiare il problema sono l’evitamento (allontanarsi fisicamente dall’oggetto fobico) o tentare di sopportare con estrema difficolta’ la presenza dello stimolo che incute paura.

Entrambe le soluzioni, però, oltre a mantenere il disturbo e un’indiscussa sofferenza, possono creare notevoli disagi in grado di compromettere le normali attività quotidiane, come per esempio il lavoro e/o le relazioni significative (Baldini, 2004, APA, 2013).

Gli attacchi di panico, come affrontarli

Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM) l’attacco di panico corrisponde ad un periodo preciso di paura e disagio intensi, durante il quale una serie di sintomi si sviluppa improvvisamente:

  1. palpitazioni o tachicardia,
  2. sudorazione,
  3. tremori fini o a grandi scosse,
  4. dispnea o sensazioni di soffocamento,
  5. sensazioni di asfissia,
  6. dolore o fastidio al petto,
  7. nausea o disturbi addominali,
  8. sensazioni di sbandamento, di instabilità, di testa leggera o di svenimento,
  9. derealizzazione (sensazione di irrealtà) o depersonalizzazione (essere distaccati da se stessi),
  10. paura di perdere il controllo o di impazzire,
  11. paura di morire,
  12. parestesie (sensazioni di torpore o di formicolio),
  13. brividi o vampate di calore.

Un’esperienza di attacchi di panico ha peculiarità uniche, come unica è la storia dell’individuo, ma è possibile delineare alcune caratteristiche più comuni: in primo luogo, l’attacco di panico ha una durata relativamente breve, da pochi minuti fino a poco più di mezzora, che può sembrare però un’eternità.

La persona colpita sente il panico come una sensazione estranea al proprio vissuto in quel momento, una sensazione incontrollabile che costringe ad interrompere ciò che si sta facendo in quanto i sintomi fisici richiamano la totale attenzione.

L’età di esordio è solitamente tra i 15 e i 35 anni; la frequenza e la gravità degli attacchi varia moltissimo da individuo a individuo: alcuni sperimentano attacchi di panico ogni settimana, oppure mensilmente, mentre altri riferiscono periodi in cui gli attacchi sono più frequenti intervallati a mesi senza che si verifichi un vero e proprio attacco, ma magari solo uno stato di ansia piuttosto controllabile.

La ricerca di aiuto è di solito immediata e con tutti i caratteri dell’urgenza medica; l’attacco di panico è sentito come primariamente corporeo e dunque ci si rivolge al Pronto Soccorso pensando di avere un principio di infarto, o una compromissione dell’apparato respiratorio o una crisi acuta di un’altra malattia organica.

Quando però gli esami diagnostici e le visite mediche non riscontrano alcuna patologia fisica, il paziente prova spesso uno stato di terribile incertezza e non si sente affatto rassicurato.

Il panico è descritto da sintomi fisici concreti, il terrore è collocato dentro il proprio corpo, il pericolo è identificato all’interno di se stessi e il proprio mondo interno sembra rivelarsi un luogo sconosciuto, contenitore di sensazioni sconvolgenti a cui non si può sfuggire.

L’ansia e il panico sono sintomi di disagio psicologico in cui più si avverte la dimensione corporea, biologica: si percepisce aumento della frequenza cardiaca, difficoltà di respirazione, vertigini, nausea, tremori, sudorazione, vampate di calore, senso di freddo improvviso agli arti o sensazione di torpore, dolori al torace, fitte al cuore etc.

Queste manifestazioni somatiche dell’ansia trovano una parziale spiegazione nel meccanismo di attivazione naturale del corpo in situazioni stressanti; le nostre emozioni si correlano ad un’ampia serie di ormoni cerebrali (come la dopamina, la noradrenalina, le endorfine) e gli eventi esterni hanno la capacità di modificare l’equilibrio neuroendocrino (per esempio un evento piacevole può stimolare la produzione di endorfine, l’attività fisica e sportiva può avere un effetto eccitatorio ecc), ma la risposta agli stessi eventi è differenziata da individuo a individuo, in rapporto sia alla struttura fisica, che all’influenza delle esperienze precedenti.

Si possono considerare stressanti tutti gli eventi che comportano un cambiamento nella nostra vita, specialmente se improvviso.

Pur essendo stato riconosciuto un substrato biologico che sottende il panico, la modalità di cura più adatta per questo disturbo è l’intervento integrato che unisce la terapia farmacologica, utile nel momento di presa in carico e gestione di emergenza, con la terapia psicologica, al fine di chiarire le cause che hanno determinato questo disagio ed attivare un processo di reale cambiamento.

Lo scopo della farmacoterapia è ridurre i sintomi o eliminarli; la scelta di intraprendere un trattamento psicologico nasce invece dalla constatazione che nella maggioranza dei casi talune situazioni come la perdita o rottura di importanti relazioni personali sono associate con il disturbo di panico e che gli studi suggeriscono certamente delle influenze psicologiche (Gabbard, 1995).

La depressione post-partum

C’è un aspetto della giovane madre al quale bisogna prestare molta attenzione, che è la cosiddetta depressione post-partum o depressione puerperale, un perfido male in agguato. Il meccanismo ipotizzato pare sia il seguente.
Nella gravidanza, la natura ha previsto che certi ormoni abbiano un’azione distensiva, sedativa sulle cellule nervose. Alcuni metaboliti del progesterone hanno addirittura evidenziato un effetto sedativo 200 volte superiore a quello dei barbiturici.
Durante la gravidanza la donna beneficia dal punto di vista psicologico del ruolo “rasserenante” svolto da questo cambiamento ormonale.
Si verificano, certo, casi di depressione anche in gravidanza, ma solitamente per le donne questo è effettivamente un periodo sereno: persino le donne che durante la loro vita hanno sofferto di ansie o depressione dicono di non essersi mai sentite così bene.
Anche certe gravidanze inizialmente rifiutate, con conflitti e tensioni, vengono poi accettate forse grazie anche all’azione di questi ormoni.
Il problema può invece emergere al termine della gravidanza.
E si ipotizza che sia, almeno in parte, collegato all’espulsione della placenta, un organo dotato di un importante attività ormonale.
È un cambiamento improvviso, che scombussola ancora una volta gli equilibri ormonali interni della donna. In particolare, provocherebbe la mancanza degli ormoni dotati di un’azione sedativa e forse anche antidepressiva.
Spesso, quindi, durante l’allattamento, affiora un lieve stato melanconico, che col passare dei giorni si associa a uno stato di ansia e apprensione dovuto alle responsabilità delle cure nei confronti del bambino. Poi c’è la stanchezza causata dal sonno interrotto e anche dai pianti del bambino.
Alcuni ritengono invece che sia soprattutto la montata lattea e l’azione della prolattina ad agire sui centri dell’emotività rendendo certe madri più sensibili e più inclini al pianto.
In passato, quando si viveva in famiglie allargate, tutto ruotava intorno al neonato e anche intorno alla puerpera, che aveva così un maggior sostegno.
Oggi la madre invece torna a casa e spesso rimane tutto il giorno sola, senza nemmeno il marito, assente per lavoro.
Queste “melanconie”, peraltro, sono passeggere e scompaiono da sole abbastanza rapidamente. Non si può parlare quindi di depressione vera e propria.
La vera depressione, invece, è cosa ben diversa. È una brutta bestia che colpisce un numero ristretto di madri e che può peggiorare col tempo.
A volte in modo drammatico. Perché può essere l’innesco di una malattia molto seria, che scatena i disturbi dell’umore e disturbi dell’ansia.
In particolare certe donne che hanno in famiglia casi di depressione bipolare hanno maggiori probabilità di “esordire” con una loro depressione dopo il parto.
Naturalmente bisogna distinguere tra varie forme depressive di diversa gravità e che sono tutt’altra cosa rispetto a quella transitoria melanconia che è invece spesso associata al solo periodo che segue il parto.
In passato molte donne hanno sofferto di depressione suscitata dal parto.
Ma allora non si conoscevano anche i meccanismi biochimici legati a questa malattia. Veniva vista come una condizione dovuta alla prostrazione del dopo parto, un esaurimento nervoso da curare con ricostituenti e con frasi affettuose: “Su non fare così…tutti ti vogliono bene! Pensa al tuo bambino, vedrai che ti passerà! Esci, distraiti un po’!…”.
Oggi si sa che non è un problema di nutrizione, né tanto meno di buona volontà da parte di chi è veramente depresso.
È un male che colpisce dentro, in profondità: il depresso si sente come in fondo a un pozzo dal quale non riesce più a uscire.
Per questo è importante non lasciare che la depressione si installi.
Da psicoterapeuta il mio parere è che è importante curare soprattutto le forme gravi di depressione con il farmaco giusto (non separo l’aspetto psicologico da quello fisiologico quando sono così interconnessi), ma altrettanto rilevante è un aiuto psicologico che aiuti ad affrontare questo momento di vita così delicato per la giovane madre.

A parte il cancro tutto bene

E’ molto difficile parlare del brutto male “Il cancro” e spesso anche nominarlo non è semplice.
In questa battaglia il ruolo della famiglia è fondamentale come sostegno alla persona nell’accompagnarla in tale percorso con amore, forza, condivisione, rispetto e talvolta silenzio. Leggendo il libro di Corrado Sannucci “Io e la mia famiglia contro il male, a parte il cancro tutto bene”, mi hanno colpito delle parole del protagonista che ha vissuto in prima persona questa battaglia.
Credo siano esaustive del vissuto che può attraversare corpo, anima e mente di una persona alla quale viene diagnosticato il cancro.
Per questo riporto di seguito una parte di tale testimonianza di vita.

“Sono perseguitato dalle domande inutili di chi vuole essere partecipe alla mia battaglia.
La prima è: come ti senti? La realtà è che io non mi sento in nessun modo. Nessuna attività che percepisco del mio corpo ha attinenza con la mia effettiva condizione. Il fante nella trincea non giudica il suo stato dal fango che ha sugli scarponi, ma dal fuoco che lo attende appena alzerà la testa.
Il mio corpo è tutt’altro che muto, è un caleidoscopio di reazioni. E’ debole, fortificato dal doping cortisonico, iroso e poi euforico; non mi fa dormire, mi fa camminare a fatica, si riempie di ematomi dove è punto dagli aghi, dopo pochi gradini dona un affanno sconosciuto a un vecchio jogger come me. Non c’è un solo minuto in cui taccia e si astenga da riflessi, risposte, adattamenti. Le mani si stanno seccando, i capelli inaridendo dalle punte. Le ossa dolgono, come le travi di un palcoscenico cigolano calpestate da attori corpulenti. Ascolto e registro questi terremoti: ma sono i terremoti di una stella sulla quale non abito.
Io non “sto bene” perché oggi l’insonnia si è arresa tra le 5 e le 7.
Non “sto peggio” perché il quadricipite femorale ormai non riesce neanche a farmi tenere il passo di mia figlia all’uscita da scuola, quando scappa per inseguire un compagno di classe.
Non sono migliorato se le mie papille gustative si degnano di raccogliere il sapore delle verdure, non sono peggiorato se invece la mia nutrizione passa solo per i sapori brutali del gorgonzola.
Questo cinematografo degli organi e dei sensi non mi riguarda. Sono sensazioni alle quali puoi credere solo se credi alla verità di un bacio tra due attori: ma non raggiungono il mio intelletto, non riescono ad accreditarsi presso di lui.
Non assurgono a dignità di miei sentimenti, non glielo permetto. La mia anima è intatta, regge all’assedio del vociare del corpo. Nulla del mio pensiero deve venire intaccato.
Non misuro i miei cambiamenti fisici. Sono ingrassato per il cortisone, ma dimagrire o ingrassare non mi allontanerà o avvicinerà di un centimetro alla mia meta.
Quando mi sveglio la mattina non certifico la stanchezza o il vigore. La mia vigilanza diuturna, continua, assoluta, prescinde dalle ore che ho dormito.
Non mi sfugge niente dal vulcano interiore: ma io non mi “sento” bene o male se la lava scorre nella sua sciarra o invade e distrugge i campi.
Ho invece una percezione netta, scultorea, del mio impegno e della mia determinazione.
La domanda gradita sarebbe proprio questa: la tua anima è ancora salda?
Non me la fa nessuno”.

Certo queste parole profonde testimoniano anche una forza d’animo, una determinazione e un amore per la vita del tutto ammirabili.

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Riferimenti bibliografici

  • “Io e la mia famiglia contro il male”, di Corrado Sannucci, Ed. Mondadori, 2008.

Disturbo post traumatico da stress e relazioni

Secondo il DSM-IV il disturbo post traumatico da stress è caratterizzato dal rivivere un evento estremamente traumatico, vissuto con sentimenti di terrore, impotenza e orrore.
Tale evento può essere rivissuto in diversi modi.
Il soggetto sperimenta di nuovo nell’immaginazione e nei pensieri il trauma relativo all’evento terrificante che lo ha colpito. Egli percepisce e sente ancora vivo il dolore fisico e psichico provato.
Può avere subito eventi di morte o di minaccia di perdita della vita e dell’integrità fisica che riguardano personalmente lui o persone care come partner, figli, genitori. L’evento si può presentare anche periodicamente nei sogni, in allucinazioni e momenti dissociativi.
Il soggetto è colpito da profondo disagio soprattutto di fronte a fattori interni ed esterni che possono scatenare per la loro somiglianza l’esperienza vissuta.
Nei bambini piccoli sovente accade che ripetutamente si rimanifestino le sequenze specifiche del trauma subito. Il soggetto evita tutto ciò che può essere associato alla sua esperienza traumatica e soprattutto farà ogni sforzo per non ricordare e non trovarsi con persone presenti nella tragica circostanza o in luoghi che gli possono evocare l’evento terrificante.
Talvolta può avere difficoltà nel ricordare qualche aspetto della sua esperienza e mostrare un’affettività ridotta che lo porta ad adottare comportamenti indifferenti e distaccati nei confronti degli altri.
Sono presenti elementi simili a quelli depressivi come la diminuzione di interesse e piacere, di partecipazione delle attività e alle relazioni sociali. Si teme di non poter avere una vita normale ma di viver minor tempo e di non riuscire a realizzare gli obiettivi della popolazione media (per esempio carriera, matrimonio, figli).
Spesso si verifica un forte aumento del livello di ansia e di tensione.
Il soggetto ha difficoltà nel dormire, irritabilità, incapacità di concentrarsi, ipervigilanza. Vive in un continuo stato di allarme. La durata del disturbo è superiore a un mese (è definito acuto se inferiore ai tre mesi e cronico se superiore).
Il disturbo crea un disagio significativo o compromette le aree di funzionamento globale. Il disturbo acuto da stress è caratterizzato da sintomi simili a quelli presenti nel disturbo post- traumatico da stress che si verificano immediatamente a seguito di un evento estremamente traumatico, ma a differenza di quest’ultimo, dura da un minimo di due giorni a un massimo di quattro settimane. Inoltre l’espressione sintomatologica generalmente appare più acuta e potrebbero presentarsi fenomeni di derealizzazione e depersonalizzazione.
Mai come in questo caso è significativo indagare le circostanze dell’insorgenza del sintomo. A questo proposito è anche utile sapere in quale particolare periodo e contesto di vita del soggetto si è verificato l’evento.
E’ interessante esplorare come è stato vissuto e rappresentato l’evento traumatico, in che modo la persona lo sta elaborando, quali aspetti della personalità sono minacciati, se vi sono aree di funzionalità compromesse.
Importantissimo è sapere se l’episodio ha scatenato la manifestazione e lo sviluppo di nuclei patogeni della personalità.
E’ opportuno anche indagare se, e in che modo, la percezione di sé è stata modificata in seguito all’esperienza subita e individuare il grado di strutturazione e di forza dell’Io, il livello di autostima, le strategie difensive, le risorse interne ed esterne per far fronte al trauma.
Nella mia pratica terapeutica adottando una psicoterapia sistemica e relazionale rivolgo attenzione anche alle relazioni e al sistema attorno all’individuo, considerando l’identità individuale come frutto delle relazioni significative che la persona ha intrattenuto e intrattiene nel corso della sua vita.
Per questo il percorso sull’individuo fornirà la persona degli “strumenti” utili per relazionarsi agli altri in maniera diversa e più soddisfacente.

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Bibliografia

  • ABC della psicopatologia, M. Falabella, ed. scientifiche Magi, 2001.
  • Manuale di psichiatria, P. Sarteschi, C. Maggini, ed. SBM, 1982.

La fobia scolare

Il termine “fobia scolare” viene comunemente utilizzato per descrivere una sindrome nella quale il sintomo preponderante è una forte paura o angoscia legata all’idea di andare a scuola. Il forte disagio emotivo percepito dal bambino è spesso associato a manifestazioni comportamentali, cognitive, e fisiologiche.

I sintomi possono iniziare in seguito ad eventi di vita stressanti che si sono verificati a casa o a scuola, tra cui:

  • la propria malattia o di un membro della famiglia,
  • la separazione tra i genitori, la separazione transitoria da uno dei genitori,
  • relazioni conflittuali nella famiglia,
  • un legame disadattivo con uno dei genitori,
  • problemi con il gruppo dei pari o con un insegnante,
  • il ritorno a scuola dopo una lunga interruzione o vacanza.

Il disturbo si caratterizza per sintomi somatici (vertigini, mal di testa, tremori, palpitazioni, dolori al torace, dolori addominali, nausea, vomito, diarrea, dolori alle spalle, dolori agli arti).
Il livello di angoscia può essere elevato fin dalla sera prima e il bambino può riposare male, il sonno può essere disturbato da incubi o risvegli notturni.

Fuori il ragazzo si sente inadeguato e incapace di fronteggiare la situazione, pensa di non poter tollerare il giudizio, la valutazione o il confronto con gli altri, ritiene le richieste scolastiche eccessive e adotta comportamenti di evitamento o di fuga.

Il dialogo con un esperto può aiutare il ragazzino ad esternare le proprie paure individuando le fonti del suo disagio, per cercare insieme nuove modalità e strategie utili a fronteggiare le situazioni che lo spaventano.

La semantica fobica: un problema di libertà

«Nessun uccello vola molto lontano, se vola con le proprie ali»

recita pressappoco così uno dei proverbi dell’inferno di Blake. Basta modificarne lievemente il significato, trasformandolo in:

«Non vola molto lontano l’uccello che vorrebbe volare con le proprie ali»

per condensare in poche parole il naufragio a cui un insieme di circostanze – il Destino – può condurre chi abbia un’organizzazione fobica.

La polarità semantica critica delle famiglie in cui un membro sviluppa una strategia fobica è “dipendenza, bisogno di protezione/libertà, indipendenza”.
Le emozioni che stanno alla base di questa polarità sono paura/coraggio. Il mondo esterno, a causa di eventi drammatici verificatisi nella storia familiare, o per ragioni più oscure, è visto come minaccioso, e la stessa espressione delle emozioni è talora considerata fonte di pericolo. Proprio perché la realtà incute paura, l’altro è percepito come fonte di protezione e rassicurazione. Analogamente, si è liberi e indipendenti dagli altri proprio perché si è coraggiosi e quindi in grado di fronteggiare da soli un mondo pericoloso. Va sottolineato che libertà e indipendenza sono intese entro questa dimensione semantica come libertà e indipendenza dalla relazione e dai suoi vincoli.
In primo luogo, paura/coraggio e la polarità semantica connessa sono, in queste famiglie, salienti, rappresentano cioè emozioni e categorie dei comportamenti ricorrenti esterni ed interni alla famiglia. Ciò significa che la conversazione in queste famiglie si organizza preferibilmente attorno ad episodi dove la paura, il coraggio, il bisogno di protezione e il desiderio di esplorazione e di indipendenza svolgono un ruolo centrale. Come esito di questi processi conversazionali, i membri di queste famiglie si sentiranno e verranno definiti timorosi, cauti o, al contrario, coraggiosi, o addirittura temerari; troveranno persone disposte a proteggerli o si imbatteranno in persone dipendenti, incapaci di cavarsela. Si sposeranno con persone fragili, dipendenti, ma anche con persone libere, talvolta insofferenti dei vincoli; soffriranno per la loro dipendenza, cercheranno in ogni modo di conquistare l’autonomia; in altri casi saranno orgogliosi della loro indipendenza e libertà, che difenderanno più di ogni altra cosa. L’ammirazione, il disprezzo, i conflitti, le sofferenze, le alleanze, l’amore, l’odio si giocheranno su temi di dipendenza/indipendenza. In queste famiglie ci sarà chi – come il paziente agorafobico – è così dipendente e bisognoso di protezione da avere bisogno di qualcuno che lo accompagni per affrontare anche le situazioni più consuete della vita quotidiana. Ma più di un membro della famiglia, all’opposto, avrà dato e continuerà a dare prova di particolare autonomia. In tutte le storie familiari dei pazienti fobici ci sono personaggi che esprimono autonomia in maniera estrema, anche se la natura di tale autonomia varia da nucleo a nucleo, in rapporto all’inevitabile presenza nella famiglia di altre polarità oltre a quella critica.
La letteratura ha fornito una descrizione del contesto familiare fobica tutta nel segno di bisogno di protezione e della chiusura verso l’esterno. I genitori delle persone con organizzazione fobica presentano ai figli il mondo esterno come pericoloso, sono iperprotettivi e limitano la libertà della prole.
I membri di queste famiglie sentono l’amicizia, l’amore e le altre forme di attaccamento in termini parzialmente negativi perché le costruiscono come forme di dipendenza, mentre gli episodi in cui l’individuo riesce a far fronte da solo alle circostanze sono costruiti come forme di libertà e di indipendenza, perché si oppongono all’avvilente condizione di dipendenza.
Lo sviluppo di un’organizzazione fobica dipende dalla particolare posizione che l’individuo assume rispetto alla dimensione semantica critica. Tutti i membri della famiglia condividono questo modo di organizzare la conversazione, ma soltanto uno, di regola, sviluppa una personalità fobica. Anzi in molte famiglie questa polarità semantica è presente, ma nessuno ha sviluppato, o svilupperà, una personalità di questo tipo.

Ciò che contraddistingue l’organizzazione fobica è la presenza di un circuito riflessivo bizzarro rispetto alla dimensione semantica critica che coinvolge i livelli del sé e della relazione: il soggetto fobico avverte la sua esigenza di legami affettivi stretti e rassicuranti come minacciante la sua autostima e il suo sé. Quando la riflessività è massima il soggetto non dispone più di una trama narrativa entro cui “con – porsi”: la sua posizione oscilla entro alternative reciprocamente escludentisi.

Essere preda di un’avvilente dipendenza
SE’
Essere libero,
indipendente,
con stima in sè
Essere protetto,
Sentirsi sicuro
RELAZIONE
Essere solo in balia di un mondo pericoloso

Il soggetto fobico tenta di trovare un equilibrio tra due esigenze ugualmente irrinunciabili: il bisogno di protezione da un mondo percepito come pericoloso e il bisogno di libertà e indipendenza. Attaccamento ed esplorazione vengono infatti sentiti come inconciliabili.
Il soggetto avverte il proprio desiderio di legami affettivi intensi e rassicuranti come inconciliabile con il bisogno di libertà e di esplorazione. Entrambe queste istanze sono sentite come irrinunciabili, sebbene persone diverse, o la stessa persona in tempi diversi, possano avvertire maggiormente l’una o l’altra. Poiché il soggetto costruisce la realtà come minacciosa e sé stesso come affetto da qualche presunta forma di debolezza psicologica e /o fisica, non può fare a meno della relazione con figure rassicuranti.
Ogni allontanamento fisico e /o psicologico da tali figure lo pone di fronte al rischio di trovarsi in balia della propria fragilità e debolezza. D’altra parte il mantenimento di una relazione stretta con figure protettive si accompagna a un senso penoso di costrizione e limitazione. Alla base dei problemi del paziente vi è il dilemma:
rinunciare alla sicurezza della compagnia ed essere libero, ma anche solo di fronte ai pericoli dell’ambiente extrafamiliare, oppure rinunciare alla libertà di esplorazione in cambio di una protezione rassicurante, ma anche soffocante (Liotti, 1987).
Da qui l’osservazione di Guidano:
la caratteristica principale di questo tipo di modello organizzazionale è una spiccata tendenza a rispondere con paura e ansia (accompagnate da una riduzione più o meno marcata del comportamento autonomo) a qualsiasi perturbazione dell’equilibrio affettivo che possa essere percepita come perdita di protezione e/o di libertà e indipendenza.

Semplificando molto, è possibile ricondurre la gamma dei modi di essere riscontrabili a un continuum con agli estremi due strategie: la prima definibile come strategia ad orientamento claustrofobico e la seconda definibile come strategia a orientamento agorafobico.
I soggetti con strategia a orientamento claustrofobico tendono ad avere un’immagine positiva di sé che si identifica con il sentirsi, e con l’essere definiti dagli altri, persone libere, indipendenti, capaci di cavarsele da sole. Per mantenere questa posizione escludono, o contengono il più possibile, i comportamenti emotivi ed espansivi che li condurrebbero a percepirsi come dipendenti dagli altri, e quindi a perdere la valutazione positiva di sé. Il mantenimento dell’autostima e del sentimento di competenza ed efficacia personale è pagato al prezzo di evitare il coinvolgimento emotivo, che viene avvertito come distruttivo e limitante la capacità di funzionamento individuale. L’intimità suscita in queste persone emozioni positive ed è avvertita come gratificante, a differenza di quanto accade ad esempio alle personalità narcisistiche; tuttavia i legami emotivi vengono sentiti come disturbanti il proprio funzionamento e quindi l’autostima.
Le persone con questa strategia non sono del tutto prive di legami, anche sentimentali, come invece si verifica spesso per chi abbia un’organizzazione a orientamento depressivo. Di regola dispongono di diverse relazioni affettive “tenute a distanza”.
Il sintomo claustrofobico, la paura degli spazi chiusi (aerei, gallerie ecc.), esprime in modo metaforico il terrore di essere intrappolati in una relazione dove “si viene fatti a pezzi”.

Le persone con strategia a orientamento agorafobico bizzarro privilegiano la relazione a scapito del sé. Tendono a costruire e a mantenere relazioni affettive molto strette, in grado di fornire un senso di protezione adeguato. Si tratta in genere di persone che rimangono tutta la vita là dove sono nate, passando da un attaccamento molto intenso, esclusivo, con uno dei genitori a un legame altrettanto ravvicinato con un partner. La relazione coniugale dura in genere tutta la vita, ma anche le altre relazioni significative vengono mantenute nel corso del tempo. È costante la paura di perdere il legame con le persone significative, dalle quali dipende in modo cruciale il loro funzionamento individuale. Altrettanto caratteristica è la tendenza a controllare le figure di riferimento e a sottoporre le relazione a continue verifiche, come anche la tendenza a soffrire per distacchi e allontanamenti fisici e/o psicologici anche temporanei. Molto attenti alla relazione e alle sue sfumature, questi soggetti possono impegnarsi in modo significativo nel lavoro, ma la priorità è sempre attribuita alla vita di relazione e alle sue esigenze. Sebbene si collochino entro l’estremo “attaccamento, bisogno di protezione”, anche loro valorizzano “libertà, indipendenza”: sono quello che sono a causa di qualche costrizione esterna.

STRATEGIA AD ORIENTAMENTO CLAUSTROFOBICO: Essere libero ed indipendente, di un livello di autostima accettabile, ma rinunciare al coinvolgimento emotivo.

STRATEGIA AD ORIENTAMENTO AGORAFOBICO: Disporre di un legame di attaccamento appagante, essere protetto, ma avere una bassa autostima.

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Bibliografia

  • V. Ugazio (1998), Storie permesse storie proibite – Ed. Bollati Boringhieri.
  • M. Bowen (1979), Dalla famiglia all’individuo – Ed. Astrolabio.
  • Alice Nucci (2010), Un problema di libertà? – Tesi 4° anno di Specializzazione in Psicoterapia Sistemica e Relazionale.

Adolescenza e paure

L’adolescenza è una fase dell’età evolutiva che comporta uno sviluppo fisico, inteso come ridefinizione del sé corporeo, uno sviluppo sessuale con conseguenti ripercussioni a livello emotivo-affettivo e uno sviluppo cognitivo. In questo periodo di grandi cambiamenti gli adolescenti presentano paure, date dallo sviluppo delle capacità cognitive e da nuove consapevolezze che aprono la strada a sofferenze, ma anche a bisogni e speranze che sono il versante opposto di ogni paura.

Speltini sottolinea l’aspetto positivo della paura considerandola come presa di coscienza della problematicità del vivere, purchè non degeneri in angoscia nevrotica o in fobie ossessive; ma soprattutto propone di leggere la paura come un indicatore dell’ambiente psicologico dell’adolescente che, come tale, fornisce informazioni utili riguardo alla rappresentazione del sé e del mondo. Riconosce che la maggior parte delle paure sono apprese dall’ambiente familiare e sociale, ma non trascura l’aspetto innato di alcune paure.

Le paure dell’adolescente possono essere tra le più svariate, dalla scuola (come banco di prova delle capacità personali collegate al giudizio e alle attese dell’ambiente familiare ), ai genitori, visti come detentori di potere, giudizio e sanzione.
Ma ci sono anche le paure centrate sull’individuo, sui complessi di inferiorità, insicurezze, senso del ridicolo, incertezze sul futuro, solitudine, paura di non farcela.
Ci sono poi le paure centrate sul sociale, le paure date dal confronto con gli altri, la paura di essere inferiore o inadeguato, nonché la paura per tutti quegli avvenimenti che sfuggono al controllo personale.

In questo tumulto emotivo e di fronte a tutte queste paure, l’adolescente può rispondere con modalità differenti.
Può padroneggiare razionalmente le situazioni che lo avviano all’età adulta, o all’opposto agire in contrapposizione al mondo degli adulti, trasgredendone le regole. Il gruppo dei pari assume una notevole importanza nell’esplorazione e sperimentazione di bisogni innovativi e nella condivisione della trasgressione in un rapporto paritario di confronto e di sostegno reciproco all’interno del gruppo.

Le condotte trasgressive dell’adolescente possono andare dall’assunzione di droghe e alcol, ad atteggiamenti di sfida e di rischio, all’instaurare relazioni sentimentali autodistruttive, a comportamenti alimentari scorretti (disturbi alimentari). Questi comportamenti in realtà sono solo la punta di un iceberg, che spesso nasconde altre problematiche, quali scarsa autostima, insicurezza data dal confronto con gli altri, conflittualità nella propria famiglia d’origine,confini e ruoli familiari non chiari, problemi di comunicazione tra genitori e figli o nella coppia genitoriale.

In tutto ciò gli adulti rivestono particolare importanza per l’adolescente, la possibilità di confronto con loro permette al ragazzo di prendere le distanze dall’urgenza dei bisogni presenti legati alle sensazioni e agli impulsi per accedere al pensiero riflessivo in vista di un progetto futuro.
Ma questo è possibile solo se gli adulti stessi sono persone equilibrate e mature con un buon rapporto con la loro stessa parte bambina e adolescente.