Le famiglie omogenitoriali

Sempre più comune sta diventando l’esperienza delle famiglie ricomposte dopo una separazione, in cui, in come si ridefiniscono le relazioni di cura intorno ad un bambino e in come viene condivisa la responsabilità genitoriale, possono assumere grande importanza anche i nuovi partner dei genitori biologici.
Le famiglie omogenitoriali, scegliendo di fare i genitori senza poter fornire una riproduzione della coppia biologica differenziata per sesso, sembrano semplicemente rendere più evidente quella variabilità ed incertezza dei confini della genitorialità che di fatto è già parte dei modi in cui crescono i bambini.
La questione della riproduzione biologica come fondamento della genitorialità, rimanda all’assunto sulla famiglia adeguata che le esperienze omogenitoriali mettono in discussione: l’idea che la coppia genitoriale debba fondarsi sulla differenza di sesso, essere incarnata da un corpo femminile, la mamma, e uno maschile, il papà.
Sembra essere questa “la minaccia” fondamentale di cui le famiglie omogenitoriali sono considerate responsabili: mettere disordine nella riproduzione delle differenze di genere nella società.
La ricerca sulle famiglie omosessuali, o sulle esperienze genitoriali di gay e lesbiche, si è sviluppata proprio a partire dai pregiudizi diffusi nella percezione sociale e dai rischi evocati nel dibattito pubblico rispetto a queste esperienze.
Primo obiettivo della ricerca empirica ė stato quello di verificare se gay e lesbiche – o le coppie dello stesso sesso – fossero genitori adeguati per un bambino.
Approfondite ricerche psicologiche negli ultimi vent’anni hanno messo a confronto figli cresciuti in contesti diversi (coppie eterosessuali e dello stesso sesso, genitori soli eterosessuali ed omosessuali), indagando diverse dimensioni rispetto a cui si evocavano possibili effetti negativi della genitorialità omosessuale: lo sviluppo di genere e sessuale, quello emotivo e quello sociale.
Si tratta in alcuni casi di ricerche longitudinali che hanno seguito questi figli anche oltre l’adolescenza.
I risultati di queste ricerche, ormai generalmente condivisi, non hanno mostrato differenze sostanziali rispetto a queste dimensioni e complessivamente al benessere dei bambini.
La risposta oggi comunemente accettata dalla comunità scientifica internazionale è dunque che genitori gay e lesbiche sono altrettanto adeguati rispetto a quelli eterosessuali, sia come singoli che come coppie.
Allargando lo sguardo, dall’attenzione al benessere e allo sviluppo psicosessuale del bambino, alle specificità delle famiglie omogenitoriali come contesto educativo, si sono sviluppate anche analisi più sociologiche. Tra queste grande impatto ha avuto la riflessione di Stacey e BIblarz, ampiamente ripresa anche in Italia
La loro proposta è stata di considerare gli elementi di “diversità” delle famiglie omogenitoriali non come potenziali pericoli, ma anche per i loro possibili aspetti positivi per la crescita dei bambini e più in generale per la società.
I figli che crescono con genitori omosessuali sembrano infatti mostrare maggiore apertura verso le differenze e capacità critica nel mettere in discussione stereotipi e pregiudizi; inoltre sembrano riprodurre in modo meno forte i ruoli di genere tradizionali.
L’aspetto problematico nel rapporto di queste famiglie con il contesto è piuttosto quello dell’assenza di riconoscimento istituzionale. La mancanza di un quadro di certezze del diritto in Italia resta comunque il principale fattore di vulnerabilità di figli e dei genitori in queste famiglie.

Bibliografia

  • “Maestra, ma Sara ha due mamme?” a cura di Alessandra Gigli, Edizioni Guerini, 2011.

I giovani e il suicidio

Intorno al suicidio convergono numerosi pregiudizi. Essi sono mantenuti e indotti da un atteggiamento istintivamente difensivo che porta l’opinione pubblica, spesso maldestramente informata dai mezzi di comunicazione di massa, a prendere le distanze da un evento così sconvolgente; altre volte, i pregiudizi e i luoghi comuni sono scorciatoie e semplificazioni interpretative anch’esse ansiolitiche, tendenti a riparare dall’angoscia indotta dalla complessità dell’evento.
Il suicidio, così come il tentato suicidio, è in genere preceduto da una serie di segnali che, se capiti in tempo, possono mettere preventivamente in allarme chi ha più stretti rapporti con la persona a rischio.
L’evento impulsivo nasconde sempre e comunque un disagio antico, lungo a volte quanto la vita stessa della vittima.
E’ noto che la solitudine rappresenta una delle condizioni più ricorrenti tra i giovani suicidi; occorre tuttavia ricordare che la solitudine è qui intesa come isolamento sia emotivo che sociale.
Alcuni autori hanno infatti dimostrato che ciò che pesa di più nella vita di un adolescente con condotte suicidarie non è tanto il non avere rapporti amicali, quanto piuttosto il non avere veri amici con i quali potersi confidare e sui quali confidare.
Secondo alcuni autori gli adolescenti che hanno tentato il suicidio hanno vissuto, nei sei mesi precedenti l’atto, un evento significativamente negativo.
Le esperienze traumatiche più comuni sono la separazione o il divorzio dei genitori o, anche, la nuova unione sentimentale di uno dei due; ma anche un ambiente familiare che, pur non arrivando a ciò, sia oppresso da un costante clima di tensione può costituire un fattore così stressante da indurre nell’adolescente sentimenti di rifiuto, vissuti di mancanza di sostegno affettivo che, a loro volta, possono produrre una carenza di autostima tale da provocare comportamenti controaggressivi.

Fra i fattori precipitanti più frequenti tra i giovani vi sono anche la rottura di un legame sentimentale, i problemi scolastici e i guai con la giustizia, l’abuso di droghe e alcol, la perdita di una persona cara o di un genitore.
Tra le ragioni che causano negli adolescenti un livello di stress correlabile alle condotte suicidarie grande rilievo e notevole interesse ha, ancorchè poco esplorata, la sfera della sessualità e in particolare l’omosessualità.
Altri eventi che ricorrono nelle storie di giovani donne che hanno tentato il suicidio sono la gravidanza non voluta o rifiutata e la molestia sessuale.
I precedenti tentativi di suicidio costituiscono certamente un fattore importante.
Come già accennato , cosi’ come l’integrità del nucleo familiare può costituire un elemento protettivo nei confronti del fenomeno del suicidio degli adolescenti, la sua fragilità rappresenta, al contrario, un sicuro elemento di rischio.

Comunque sia l’idea o il proponimento di suicidarsi è, specialmente tra i giovani, un processo graduale che tende a concretizzarsi a mano a mano che nuclei di depressività, senso si sfiducia, di disistima o la sensazione che non vi sia più nulla da fare si fanno strada nella psicologia dell’individuo.
Troppo spesso l’ideazione suicidaria è vissuta con vergogna, il che rischia di isolare ancor più la persona e di farla sentire anomala; in questo modo i suoi problemi non possono che ingigantirsi, apparendo insolubili.
Il parlarne, superando l’inevitabile diffidenza e riottosità, non può che sollevare la persona da una penosa sensazione di incomunicabilità: comunicare il suicidio può significare, in questa situazione, infrangere un tabu’, costringere a pensare ai propri problemi senza l’alibi del vissuto di anormalità.

Parliamo di omosessualità

Uscire allo scoperto, cioè non nascondere la propria omosessualità, è un processo che può comportare diversi passaggi: ammettere con se stessi di essere gay, conoscere altri omosessuali, dirlo ai familiari e agli amici, prendere parte a una manifestazione per i diritti degli omosessuali.
Uscire allo scoperto significa lasciarsi alle spalle certi sentimenti che provavamo prima come la vergogna, i sensi di colpa, l’odio per noi stessi. Significa rafforzare il nostro senso di identità e tener testa a chi reagisce male al fatto che siamo apertamente quello che siamo.

Per alcuni è difficile trovare una parola che definisca la loro sessualità.
A volte perché non sono ancora pienamente consapevoli delle loro emozioni e inclinazioni.
Alcune persone non intendono definirsi né omosessuali, né eterosessuali, né bisessuali. Altre preferiscono aspettare di aver fatto più esperienze per capire che cosa gli piace e quali rapporti sono significativi per loro.
Prima di tutto occorre uscire allo scoperto con se stessi, questo è il primo passo.
In certi casi il riconoscimento della propria omosessualità sembra una scoperta così esaltante che si vorrebbe gridarlo ai quattro venti.
Ma è importante rifletterci e prepararsi a poco a poco a dirlo agli amici e ai familiari. Può essere doloroso tenere nascosta una cosa come questa alle persone che ti conoscono e ti vogliono bene, ma è più doloroso affrettare troppo i tempi.
Non lasciarti indurre da nessuno e da nessuna circostanza a uscire allo scoperto prima di sentirti abbastanza forte e abbastanza tranquillo/a circa la tua identità da poter far fronte alle reazioni della gente.
Sei tu l’unico/a che può decider quando è tempo di dirlo alle persone di cui ti importa. Se ti trovi in una fase di ribellione contro i genitori, la tentazione di “uscire allo scoperto” solo come gesto di provocazione può essere forte, ma non è una buona idea.
Dichiararsi omosessuali può comportare grossi cambiamenti nella vita di una persona ed è quindi importante fare le cose con calma.
Conviene cominciare col dirlo alle persone che ti conoscono meglio e che ti vogliono bene.
Poiché i genitori e la famiglia occupano un posto molto importante nella vita di ciascuno di noi, verrà il momento in cui sentirai il bisogno di dirgli chi sei e che cosa provi.
Anche per i genitori l’uscita allo scoperto di un figlio o una figlia adolescenti può essere un’esperienza difficile.
I genitori che reagiscono negativamente alla rivelazione dei figli spesso hanno in mente dei pregiudizi verso gli omosessuali e forse temono che la società dia la “colpa” a loro, come spesso accade ai genitori quando i loro figli sono “diversi” o anticonformisti.
Oppure possono pensare di avere “sbagliato” qualcosa nell’educazione dei figli.
O si preoccupano delle reazioni degli amici o dei loro stessi genitori, o si sentono delusi perché avrebbero voluto avere dei nipotini.
A volte sono preoccupati perché sanno che certa gente potrà rendergli la vita più dura a causa della loro omosessualità.
In alcuni casi si tratta di preoccupazioni che richiedono tempo per essere chiarite e superate, certo è che è un grande sollievo per tutti se i genitori riescono ad accettare l’omosessualità dei propri figli; spesso dietro la disapprovazione e i litigi può esserci molto amore.
Uno psicoterapeuta può accogliere la richiesta di aiuto della persona, le preoccupazioni e i dubbi, può aiutare a chiarirne i sentimenti ed esprimere/gestire le proprie emozioni.
Certo che gli psicoterapeuti che ancora pensano di “curare” dall’omosessualità, cambiando l’orientamento e l’inclinazione della persona, non sono affatto utili per il percorso di conoscenza e di scoperta della stessa.

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Riferimenti bibliografici

  • “Cambia il corpo, cambia la vita” di Ruth Bell, Ed. Feltrinelli, 1982.

Cosa sappiamo sui disturbi d’identità di genere?

Secondo il DSM IV quando si parla di disturbi d’identità di genere si intende un’ intensa e persistente identificazione con il sesso opposto, associata a persistente e intenso malessere riguardante la propria assegnazione sessuale.

Freud ad inizio secolo, aveva ipotizzato uno sviluppo “psicosessuale” complesso a partire da una fase di indifferenziazione (bisessualità congenita); non è affatto scontato il percorso che ci porta a divenire soggetti sessuali.

Nei bambini l’identificazione con il sesso opposto si manifesta con un eccessivo interesse per le attività femminili, come indossare abiti femminili, essere attratti da giochi femminili, tipo bambole,interpretare ruoli femminili ed evitare quelli maschili. Manifestare il desiderio di essere bambine, urinare seduti o fingere (desiderare) di non avere il pene, sostenere che gli attributi maschili sono disgustosi e che cadranno o che verranno tolti.

Per le bambine si manifestano intense reazioni negative nei confronti delle aspettative genitoriali, come evitare di portare abiti femminili o portare capelli corti e mascolini, preferire eroi maschili e preferire giocare con i maschi, rifiutare di urinare sedute, sostenere di avere il pene, di non volere le mammelle e le mestruazioni, sostenere apertamente che quando sarà adulta sarà o diventerà un uomo.

Negli adolescenti e adulti può essere presente il desiderio di vivere come membro del sesso opposto e desiderare o utilizzare trattamenti ormonali e/o operazioni chirurgiche per raggiungere tale scopo. Sono infastiditi dall’essere classificati secondo il loro genere sessuale, adottano comportamenti e vestiti del sesso opposto, tentano di farsi passare per soggetti dell’altro sesso, l’attività sessuale è condita da fantasie omosessuali. Tutto questo causa disagio o compromissione nell’area sociale o lavorativa.

La persona che ha raggiunto la consapevolezza di un disagio profondo e non più eludibile può rivolgersi a un professionista nella speranza che sia in grado di aiutarlo ad affrontare le proprie problematiche e a “dare un nome” al proprio disagio; la richiesta implicita sembra quella di essere inclusi in una categoria diagnostica che, per quanto limitante, possa rivelarsi comunque rassicurante rispetto ad un malessere profondo e confuso cui non si riesce a dare né senso né nome.

Quando il primo contatto avviene con uno psicologo, spesso la richiesta evolve in una psicoterapia, affinché la persona possa chiarire a se stessa il senso del proprio disagio esistenziale e delle limitazioni ad esso connesse. Nel percorso terapeutico è fondamentale dare spazio alla persona perché possa sostenere il dubbio per il periodo necessario per potersi identificare in maniera unica ed individuale come essere umano con le sue caratteristiche personali prima ancora che con il suo genere.

Lo scopo dell’intervento psicologico è quello di accrescere la consapevolezza della persona sofferente cioè quello di fare luce sulle sue paure, sui suoi desideri più autentici, sulle motivazioni della sua sofferenza o del disagio che sta vivendo. Lo psicologo non è tenuto ad adottare le cosiddette “terapie riparative” volte a modificare l’orientamento sessuale dell’ individuo.

Qualora invece l’individuo si rivolga allo psicologo avendo già intrapreso l’iter di RCS (riattribuzione chirurgica di sesso), si può iniziare un percorso di sostegno psicologico che accompagni la persona durante l’iter stesso.