Secondo il DSM IV quando si parla di disturbi d’identità di genere si intende un’ intensa e persistente identificazione con il sesso opposto, associata a persistente e intenso malessere riguardante la propria assegnazione sessuale.
Freud ad inizio secolo, aveva ipotizzato uno sviluppo “psicosessuale” complesso a partire da una fase di indifferenziazione (bisessualità congenita); non è affatto scontato il percorso che ci porta a divenire soggetti sessuali.
Nei bambini l’identificazione con il sesso opposto si manifesta con un eccessivo interesse per le attività femminili, come indossare abiti femminili, essere attratti da giochi femminili, tipo bambole,interpretare ruoli femminili ed evitare quelli maschili. Manifestare il desiderio di essere bambine, urinare seduti o fingere (desiderare) di non avere il pene, sostenere che gli attributi maschili sono disgustosi e che cadranno o che verranno tolti.
Per le bambine si manifestano intense reazioni negative nei confronti delle aspettative genitoriali, come evitare di portare abiti femminili o portare capelli corti e mascolini, preferire eroi maschili e preferire giocare con i maschi, rifiutare di urinare sedute, sostenere di avere il pene, di non volere le mammelle e le mestruazioni, sostenere apertamente che quando sarà adulta sarà o diventerà un uomo.
Negli adolescenti e adulti può essere presente il desiderio di vivere come membro del sesso opposto e desiderare o utilizzare trattamenti ormonali e/o operazioni chirurgiche per raggiungere tale scopo. Sono infastiditi dall’essere classificati secondo il loro genere sessuale, adottano comportamenti e vestiti del sesso opposto, tentano di farsi passare per soggetti dell’altro sesso, l’attività sessuale è condita da fantasie omosessuali. Tutto questo causa disagio o compromissione nell’area sociale o lavorativa.
La persona che ha raggiunto la consapevolezza di un disagio profondo e non più eludibile può rivolgersi a un professionista nella speranza che sia in grado di aiutarlo ad affrontare le proprie problematiche e a “dare un nome” al proprio disagio; la richiesta implicita sembra quella di essere inclusi in una categoria diagnostica che, per quanto limitante, possa rivelarsi comunque rassicurante rispetto ad un malessere profondo e confuso cui non si riesce a dare né senso né nome.
Quando il primo contatto avviene con uno psicologo, spesso la richiesta evolve in una psicoterapia, affinché la persona possa chiarire a se stessa il senso del proprio disagio esistenziale e delle limitazioni ad esso connesse. Nel percorso terapeutico è fondamentale dare spazio alla persona perché possa sostenere il dubbio per il periodo necessario per potersi identificare in maniera unica ed individuale come essere umano con le sue caratteristiche personali prima ancora che con il suo genere.
Lo scopo dell’intervento psicologico è quello di accrescere la consapevolezza della persona sofferente cioè quello di fare luce sulle sue paure, sui suoi desideri più autentici, sulle motivazioni della sua sofferenza o del disagio che sta vivendo. Lo psicologo non è tenuto ad adottare le cosiddette “terapie riparative” volte a modificare l’orientamento sessuale dell’ individuo.
Qualora invece l’individuo si rivolga allo psicologo avendo già intrapreso l’iter di RCS (riattribuzione chirurgica di sesso), si può iniziare un percorso di sostegno psicologico che accompagni la persona durante l’iter stesso.